La Girgenti di Pirandello, l’ultima Medina di Sicilia.
Sono passati novant’anni da quando Luigi Pirandello ricevette il Premio Nobel per la Letteratura — era il 1934 — che lo consacrò universalmente come uno dei più grandi scrittori e drammaturghi di ogni tempo. Ciononostante i suoi luoghi agrigentini non sono sempre narrati e trattati come si dovrebbe. Spesso ci si limita alla sua Casa Natale, in contrada Kaos, che però è stata trasformata in un Museo ultramoderno con tanto di schermi touch e citazioni dei suoi libri riportate a muro. La sensazione degli avventori letterari che la visitano è in tanti casi di delusione, perché gli ambienti sono stati snaturati e non rimane nulla che possa testimoniare la sua vita quotidiana d’un tempo. Così come spesso lo si affianca alla Valle dei Templi, luogo che Pirandello visitava sì per lunghe passeggiate meditative, ma che di rado entra nelle descrizioni magnifiche della sua opera omnia.
In realtà, i luoghi che maggiormente descrive Pirandello nei suoi romanzi e nelle sue Novelle, traggono ispirazione e ambientazione dalla vita nella Vecchia Girgenti: l’antico borgo agrigentino, di fondazione araba e medievale, che si sviluppa su uno dei due colli della città. Un dedalo sublime di cortili, scalinate, piazze e vicoli che salgono e scendono in un labirinto tipico delle Medine mediorientali in cui il tempo sembra essersi fermato e il cui interesse a riscoprirlo è spesso oggetto di indifferenza e parole al vento. Ma se si vuole davvero conoscere il genius loci che ha ispirato l’opera di Luigi Pirandello, bisogna inoltrarsi in questo groviglio di secoli, sfogliando principalmente le pagine de I vecchi e i giovani e scovando le Novelle qui ambientate.
E non si può che iniziare questa scoperta dalla Bibbirìa (dall’arabo “Porta dei Venti”) — il quartiere popolare posto all’inizio della Via Duomo — dove ancora s’erge, diroccata e sgangherata, La Casa del Granella. È in questa novella, ambientata a inizio Novecento, che Pirandello affronta il tema dello spiritismo: non come viene stigmatizzato oggi, ma come una vera e propria “religione nuova dell’umanità”. È in queste pagine che si evince l’affinità con Luigi Capuana — uno dei suoi padri intellettuali e grande amico — con cui Pirandello condivide la ricerca ascetica dello spirito e la critica a una scienza che “co’ suoi saldi ma freddi ordigni, col suo formalismo troppo rigoroso aveva sopraffatto la natura”.
Da lì ci si inoltra per la Medina, seguendo stradine strette coi balconi vicini e le sedie ancora poste sull’uscio delle case. I cortili vengono tuttora abbelliti con piante sempre verdi, anche se i vicoli sono spesso abbandonati e il guano dei passeri ne fa sovente d’accompagnamento, mentre i pochi abitanti che ancora vi vivono salutano e mostrano curiosità al viandante. Qui, continua a vigere un’atmosfera di comunità, nonostante la decadenza e la scomodità di chi è abituato ai comfort della vita moderna. I rimandi pirandelliani riecheggiano costanti mentre ci si inerpica nella Medina, e non sembra esser cambiato molto da quando Pirandello, ne I vecchi e i giovani, narrava che “Vi si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati dai cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buje come antri…”.
Prendendo il vicolo Caraccioli prima e le scalinate di Sant’Alfonso dopo, si giunge di nuovo sulla Via Duomo, esattamente di fronte l’ingresso della Biblioteca Lucchesiana. È da questo Tempio della Conoscenza — costruito dal Vescovo visionario Lucchesi-Palli nel 1765 e luogo di una solennità cosmica che ospita più di centomila volumi quasi tutti antecedenti al Novecento — che Pirandello trae spunto per costruire due personaggi delle sue opere: il primo è il personaggio bibliotecario de Il fu Mattia Pascal, il romanzo che più l’ha reso celebre al mondo; il secondo è lo studioso ed arabista Vincente di Vincentis che - ne I vecchi e i giovani - passa la vita in questo luogo a decodificare i quattordici manoscritti arabi medievali i quali, ancora oggi, sono presenti in Biblioteca conservati in cassaforte e visionabili solo previa autorizzazione della Direzione.
Continuando a camminare sulla Via Duomo, riviviamo ancora le pagine della Girgenti pirandelliana (la città muta nome nel 1927 quando il fascismo le ridà la denominazione dal richiamo romano Agrigentum) che il grande scrittore e drammaturgo descrive come la città dei preti e delle campane a morto (da “I vecchi e giovani”): la cattedrale normanna dedicata al patrono San Gerlando, il maestoso Palazzo Vescovile e l’accurata facciata del Seminario. È dalla Piazza Duomo, oggi trasformata in un parcheggio selvaggio, che si rientra nella Medina e s’arriva subito all’Arco di Spoto dove Pirandello ambientò una delle sue novelle più truci — La verità — in cui si processa un contadino che ha ucciso la moglie la quale lo tradiva con un nobile Signore che viveva proprio in un palazzo accanto a questo antico arco medievale. Durante il processo il contadino arringa come un Raskolnikov in versione mediterranea, dicendo che non ha ucciso la moglie per l’adulterio, ma perché la sposa del nobile Signore, scoperto il tradimento del marito, è andata a raccontarlo a tutti i vicini del contadino che a quel punto perde l’onore e non gli rimane che questo gesto estremo per salvare la sua coscienza e la sua reputazione. Come Dostoevskij insegna in Delitto e Castigo, un assassino uccide sempre un principio, e Pirandello, in questa breve e cruda novella, rimarca questa verità esistenziale che nessuna forma di processo potrà mai placare.
Muoversi nella Medina di Girgenti richiede l’orientamento sensitivo degli antichi dragomanni: si ridiscende per vicoli misteriosi affioranti in cortili incantevoli, che la cittadinanza odierna sconosce ma le cui energie rimangono sempre vive e vibranti in una sorta di richiamo mistico e millenario. E dalla Via Oblati si arriva all’Istituto Gioeni, altro luogo simbolo del centro storico, costruito per volontà dell’omonimo vescovo nella prima metà del Settecento. La sua ambizione era quella di creare un centro polivalente delle arti e dei mestieri, e l’ubicazione massiva della struttura doveva essere visibile da ogni parte del territorio. Rimasto in funzione fino agli anni Sessanta del Novecento, oggi versa in condizioni di semi-abbandono, con le ampie finestre murate da mattoni rossi che ne danno una sensazione a tratti inquietante ma con la possibilità di godere di uno degli ultimi punti panoramici onnicomprensivi della Città Vecchia e del Mare Africano. In realtà, è stato a lungo un orfanotrofio che Pirandello descrive nella novella I fortunati (Tonache di Montelusa) dove ricorda quegli infanti con una prosa commovente “… le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giù, provenienti da quella fabbrica fosca nell’altura, accoravano come un lamento di carcerati”.
Il percorso potrebbe continuare ancora a lungo: le chiese del Ràbato, le descrizioni ammalianti della Via Atenea, le innumerevoli ambientazioni nell’opera di Pirandello sparse in tutta la Medina. Ci vorrebbero almeno due giornate intere per conoscere a fondo i luoghi della Girgenti pirandelliana. Ad ogni modo, sono pochi oggi gli operatori turistici e culturali che propongono questo itinerario ai visitatori (principalmente La Strada degli Scrittori ed Ecclesia Viva). L’auspicio è quello che per il 2025, anno in cui Agrigento sarà “Capitale della Cultura italiana”, la riscoperta dei luoghi pirandelliani dell’antico centro storico possa avere la sua definitiva consacrazione ed essere offerto, in maniera strutturata, ai tanti turisti che la città si prepara ad accogliere tra poco più di dieci mesi.
Roberto Bruccoleri, febbraio 2024