La piazza e il Grande Timoniere - [Racconto breve]
All’uscita dalla metropolitana iniziava la fila, era per i controlli al metal detector, come se ci dovessimo imbarcare su un aereo, ma stavo solo entrando a Piazza Tienanmen. La coda era ordinata e nessuno sbraitava fretta. Superato l’ostacolo gli occhi si poggiavano sulla più grande piazza che avessi mai visto in vita mia. Alle spalle la Città Proibita, di fronte una distesa che lasciava appena intravedere la fine. La cominciai a passeggiare, scrutando con garbo le migliaia di pedoni che la attraversavano in ogni direzione. Mi diressi al Mausoleo di Mao Tse-tung. Anche lì fila, anche lì metal detector, un’aura di commozione avvolgeva le persone che stavano per far visita alla salma del Grande Timoniere. Nel giardino all’entrata centinaia di cinesi si prostravano davanti un’aiuola dove lasciavano fiori dai colori vivaci. Si muovevano con reverenza, rimembravano la fedeltà a un’idea, la riconoscenza a un uomo che aveva ridato lustro e prestigio internazionale a una delle più antiche civiltà del mondo. La visita del Mausoleo fu breve, non ci si poteva fermare né fare foto. Il Grande Timoniere stava lì, imbalsamato, da più di quarant’anni era steso su un letto al centro di una sala. Noi pellegrini politici lo potevamo ammirare dai lati, vestiva ancora la zhongshan zhuang, la giacca maoista con quattro tasche e una fessura sul taschino sinistro per la penna, e il viso era d’un arancio scuro che gli dava ancora sembianza di vita.
Fuori diverse bancarelle vendevano gudget celebrativi di Mao: piatti, statue, statuine, candele, poster, magliette, spille, libri, matite, orologi, penne, specchi, cornici, cappelli e colbacchi, tutto ciò che era maoizzabile per i turisti fu compiuto. Il liberismo più sfrenato aveva ormai preso piede anche qui. Tutto è mercificabile.
Mi sedetti a metà della piazza. Bevevo acqua gasata e guardavo il Mausoleo. Avevo visto la salma di Mao, avevo visto la commemorazione che gli riservavano i cinesi. Accresceva dentro di me l’idea che non esiste un popolo superiore ad un altro, che ognuno ha una sua storia e noi la dobbiamo rispettare, quantunque ci sia descritta come la peggiore delle organizzazioni. Ammiravo un popolo fiero della propria identità, dei propri eroi, della propria anima. Ne riconoscevano gli errori, ma non volevano cancellarlo dalla memoria collettiva, aveva pur sempre ridato linfa vitale a una civiltà millenaria che si stava sgretolando sotto l’occupazione giapponese, i nazisti d’Asia.
Continuai a camminare. Il mio sguardo si posò sulla grande bandiera della Repubblica Popolare che svettava orgogliosa e immane al centro della piazza: il suo rosso passionario luccicava nel cielo di Pechino, le sue stelle gialle sembravano proteggerne la purezza.
Attraversai tutta la piazza. Non mi venne in mente lo studente che nel 1989 s’era messo di fronte al carro-armato, pensai piuttosto alla foto di Tiziano Terzani, nella quarta di copertina di “La porta proibita”, quando arrivai di fronte l’ingresso della Città Proibita. Portava una camicia con le maniche rialzate, taccuino e penna sulla tasca della camicia, zaino su una spalla e macchina fotografica al collo. Dietro di lui aleggiava imperioso il ritratto di Mao, era l’inizio degli anni Ottanta, era uno dei primi giornalisti occidentali a entrare in Cina dopo la morte del Grande Timoniere. Era forte e dal baffo vispo. I suoi scritti non solo mi avrebbero cambiato la vita ma, a distanza di più di trent’anni, erano ancora delle guide più che valide per comprendere la Cina. Tentai di fare la stessa foto, feci diversi tentavi, vennero tutte sgranate, non avrei dovuto osare.
Marzo 2016