Una passeggiata a Messina, dolcissima e razionalista.

Blasco da Mompracem
10 min readFeb 2, 2023

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Vista dello Stretto

Di Messina sapevo poco, quasi nulla. Io, come tanti miei conterranei, l’abbiamo attraversata solo di passaggio per prendere il traghetto, perché nell’immaginario dei siciliani rimane una città sospesa tra un vuoto mistico e un’indifferente frontiera che inoltra al continente. Non è una città che visitiamo, di solito si va a Palermo o a Ortigia se si vuol fare una gita d’arte. Non è una destinazione turistica rinomata come Taormina, Cefalù o San Vito. È uno di quei luoghi che non si carpiscono né intuiscono, che sappiamo che esiste ma di cui non veniamo mai stimolati ad andare a esplorare. È nella mappa ma non nei pensieri dei siciliani, vi si transita ma non vi si dimora. Eppure è grande, supera i duecentomila abitanti e contende a Catania il secondo posto di città più popolosa della Sicilia.

Arrivo un lunedì sera di pieno gennaio. Sono quelle poche settimane durante l’anno che in Sicilia fa davvero freddo. Ciononostante molti bar e pizzerie sono pieni. L’università è antica e ambita, i suoi studenti popolano l’urbe in ogni momento, anche quando pensi che le strade e il locali siano vuoti per via delle basse temperature. Mangiamo una pizza, beviamo un whisky, ci aggiorniamo coi vecchi amici dello Stretto dopo quasi due anni che non ci vediamo. Già in notturna emergono tratti caratteristici architettonici molto peculiari: delle chiese rimaste a un livello più basso rispetto alla conformazione attuale della città, degli edifici magniloquenti con decorazioni bizantineggianti che scopro essere opera dell’architetto fiorentino Gino Coppedè, proprio quel Coppedè del quartiere che porta il suo nome ai Parioli di Roma. Li costruì in poco più di dieci anni, tra il 1913 e il 1925, era uno degli architetti incaricati di ridare lustro alla città dopo il terremoto del 1908. Un evento catastrofico che annientò la città, ma che da allora è un riferimento storico e spirituale che vive nel perenne: è tutto un prima e un dopo, uno spartiacque naturale della Storia di questo luogo, come Cristo per gli antichi e il Covid nella contemporaneità. È come se un‘aura di solennità sia sospesa nell’atmosfera, a indicarne sempre il ricordo e la strada per il futuro. Nel vento freddo che si genera dal bacio tra il Tirreno e lo Ionio m’avvio verso il riposo, nel mentre porgo lo sguardo verso il mare dove una Madonnina dorata splende rigogliosa nel buio soave di una notte di frontiera.

La Chiesa SS. Annunziata dei Catalani, rimasta intatta dal terremoto e adesso posta a un livello più basso rispetto la città moderna.

Era il maggio del 2021 quando invitai, nella mia Agrigento, lo scrittore messinese Dario Tomasello a presentare il suo ultimo libro Lo Stretto di Carta. Guida letteraria di una regione di confine edito da Il Palindromo, raffinata case editrice siciliana che ha al suo interno la splendida collana “Le città di carta”, eccelse guide letterarie per scoprire le città del nostro Paese. Erano tempi difficili, vigeva ancora il divieto di assembramento, i locali erano chiusi e il coprifuoco alle dieci di sera proseguiva imperterrito dall’autunno precedente. Organizzai comunque l’evento, fu bellissimo, ben partecipato e sopravvivemmo tutti. L’autore incantò la platea, il suo libro era uno stimolo a conoscere Messina seguendo le orme letterarie dei futuristi, di Nietzsche, di D’Arrigo, e di tanti altri scrittori e artisti che erano passati dalla città dello Stretto e l’avevano immortalata nelle loro pagine. Fu lì che sentii parlare per la prima volta di dimensione fantasmatica di Messina, di confine come condizione esistenziale, e non solo geografica, di un luogo. Nacque una grande amicizia con l’autore, alimentata da continui scambi epistolari, consigli di letture e una profonda stima reciproca, un’affinità intellettuale pura fondata sugli autori che ci hanno formato entrambi: Julius Evola, René Guénon, Ernst Jünger. C’ho messo un po’ a ricambiare la visita ma adesso sono qui, nella Messina che assimila le forze millenarie dei suoi mari mentre il continente sta lì, oltre quel lembo d’acqua di una bellezza celeste, che puoi sfiorare con mano e toccare con gli occhi.

La mattinata è mite. Guanti e cappello possono giacere in bisaccia. Una granita cioccolato e panna inietta energia. Incontro Dario all’università del Dams dove insegna, dopo i sinceri abbracci di rito ci avviamo di passeggio per il lungomare. Messina è tutta in orizzontale, Messina è magnifica. Il terremoto ha dato modo di farla rinascere seguendo le ultime grandi architetture novecentesche che si sono avvicendate nel nostro paese: l’Art Nouveau e il Razionalismo. Non c’è traccia di speculazione edilizia, di cementificazione selvaggia, di palazzi fatiscenti e abusi architettonici. Messina è elegante e sobria, quasi mittleuropea. Da un lato s’accompagna con lo Stretto, con tutto il suo mistero intrinseco, dall’altro una serie infinita di edifici maestosi e armoniosi, che emanano fiducia e concordia. Nel mezzo un lungomare dolce, che invita a un passo lento e meditativo, alieno alla frenesia e ricco di monumenti evocatori di un passato nobile, che ha reso questa città una protagonista cruciale nella Storia del Mediterraneo. Messina mi ricorda Trieste, una delle città che più ho amato nella vita. Me la ricorda per via della sua identità polidimensionale, me la ricorda perché è anch’essa una frontiera, me la ricorda perché i suoi viali emanano secolarità e commerci, me la ricorda perché entrambe vivono sottotraccia nell’immaginario collettivo. Messina è la Trieste di Sicilia, è il ponte sensoriale che ci unisce al continente, è la porta che inoltra a oriente, è anch‘essa il nostro nord-est. Messina è mistica, Messina è Islam, Messina è fede.

L’islameggiante Chiesa di San Giuliano

In una vecchia biografia di Gheddafi, scritta dal maestro Angelino Del Boca, il leader libico parlava della nascita del panislamismo, di cui si autoproclamava il fondatore. Tra i Paesi che ne facevano parte aveva inserito anche la Sicilia dicendo che, nonostante siano passati mille anni dalla dominazione moresca della nostra isola, essa era ancora parte spirituale dell’Islam. Concordo, pienamente. Perché si sente ancora ovunque questa atmosfera legata alla solennità islamica: la senti nella Capitale Palermo quando la attraversi e te ne stupisci, la senti nei borghi dell’entroterra arroccati tra le montagne, le senti su ogni costa, sopra ogni collina, davanti ogni mare, in qualsiasi direzione del cielo e della terra. Ogni volta che esploro un luogo nuovo della Sicilia sento sempre una traccia, una diceria, una parola del dialetto o uno sguardo profondo, che richiamano l’eterno di questa religione che ha dato forma alla nostra trascendenza amalgamandosi alla spiritualità cristiana. Messina non ne fa eccezione, e neanche il terremoto dell’Otto è riuscito a rimuovere queste orme che rimangono indelebili negli astri e inestricabili nella sua anima frontaliera.

L’esplorazione scalda. Da diverse ore erro imperterrito per la città. Mi siedo su una panchina, fumo una sigaretta, butto giù qualche pensiero istintivo:

Che invenzione sublime la Sicilia, terra d’eterno e di sostegno a una precarietà esistenziale che diventa la solidità del cuore e la solennità di una pulsante ricerca del Sacro.

Viaggiare m’ispira. Viaggiare mi fa scrivere, mi stimola, mi alimenta. Messina mi genera un fermento continuo d’idee: mi fa pensare al passato, a cosa ho lasciato e poi ritrovato, mentre la vista della costa calabra rafforza la mia indole di radicamento siculo. È qui che voglio stare, non dall’altro lato. Non voglio ponti né acceleratori modernizzanti. Voglio solo il Sud, odo il Magreb, sento la Spagna e vivo il Mediterraneo come entità sacrale. Non posso più immaginarmi altrove, la globalizzazione è il male maggiore. Il mio posto nel mondo è qui. Viaggiare sì, sempre, ma solo per poter tornare e avere di che scrivere.

Messina riecheggia di una modernità armoniosa, che ricerca l’estetica e il piacere di essere ammirata da sguardi che ne vengono addolciti. Messina è una delle più belle città razionaliste che abbia mai visto. Nel suo libro Tomasello parla dei futuristi che vedono nel terremoto dell’Otto il sogno di una realtà architettonica nuova da far sorgere sulle macerie dei vecchi edifici. La Storia ci insegna che sono spesso le catastrofi a generare il nuovo. Come il Barocco nasce e si sviluppa nell’est dell’isola a seguito dello tsunami di fine Seicento, Messina dopo il terremoto diventa la città dello studio, della sperimentazione, dell’eclettismo. Il razionalismo è un movimento architettonico di cui si parla troppo poco, quasi in sottovoce, ma che esprime una forza magnifica che unisce sobrietà, funzionalità ed eleganza. Il razionalismo imbarazza, perché è sontuoso, nobile, resistente, inossidabile, e il fascismo non può avere fatto delle cose buone. Le guide turistiche lo snobbano, dicono che è troppo recente per essere studiato. In realtà temono il giudizio di essere catalogati come simpatizzanti di ciò che non si può dire più. Il razionalismo esalta lo Stato invece che il mercato. La sua potenza è espressa attraverso la costruzione di maestosi edifici pubblici che dovevano simboleggiare la forza totalitaria. I benpensanti direbbero che è stata solo propaganda del regime, sarà pure vero ma almeno abbiamo ancora poste, porti, stazioni, municipi, palazzi di giustizia, caserme, dogane, strade, ospedali, scuole e università che non cadono a pezzi e che mantengono, a distanza di cent’anni, una gioviale concordia con il territorio e una forza prorompente che si diffonde nell’essere urbe. Mentre la cementificazione selvaggia delle città, i suoi sacchi, i suoi condomini-ghetto e la sua vita asettica che ha portato alla distruzione del senso comunitario urbano, sono tutti fenomeni figli del secondo Novecento, quello del liberismo sfrenato e del boom economico, quello del diventa chi vuoi e non del diventa chi sei, tanto in democrazia puoi fare quello che ti pare: costruire palazzi alti cinquanta metri su una riserva naturale o smantellare un centro storico millenario per dar spazio a edifici orridi, grigi e distruttori dell’armonia paesaggistica. È questa la libertà tanto agognata e che sentiamo il dovere di esportare in ogni dove? Penso che l’architettura sia ancora una delle massime espressioni di una società: si è passati dall’era del Sacro, ove per millenni si sono innalzati templi e cattedrali maestosi in nome di Dio, ai totalitarismi novecenteschi dove lo Stato sostituiva l’Onnipotente, per giungere alla volgarità, alla violenza e all’arroganza del cemento come nuovo elemento, simbolo di una libertà che si è protesa verso il cielo elevando il nichilismo a credo e trasformando l’armonia in depravazione, la comunità in privacy, lo spirito in materia, la vocazione in salario.

M’avvio verso l’alto, c’è quella splendida Chiesa posta in un posizione che già emoziona a vederla dal basso. Il fiato fatica, le scale son tante, ma s’arriva. Il panorama tende all’immaginifico, una miriade di visioni mi attraversano l’esistenza. Qui finisce l’Italia. Qui finisce l’estate avrebbe detto Pier Paolo Pasolini se fossimo stati a Trieste, ma invece siamo a Sud, al centro del Mediterraneo, sulla punta più a est di quest’isola-continente i cui mari hanno dato l’alfabeto al mondo. Ammiro imperterrito quello Stretto glorioso che sa di divinazione. Con lo sguardo che scorge lontano, fino a Villa e poi altrove, immaginando la Calabria e la punta di quello stivale che salendo ripercorre lentamente vent’anni della mia vita. Giunge il tramonto, dei mercantili sembrano sfiorare dei traghetti, il mare si tinge d’un plumbeo rosellino. Le montagne dietro Villa solcano un sentiero che da lì porta lontano, a latitudini di lingue incomprensibili, di genti bionde, fredde, che si nutrono di cibi insalubri. Ho seguito quella direzione a lungo nella vita, ma alla fine di quel percorso non ho trovato rivelazioni, se non quella che dovevo tornare. E sono tornato. E mi piace adesso veder iniziare quell’altrove ma non doverlo più attraversare. L’unica Arabia Felix possibile è quella dentro di noi.

Il Santuario di Montalto

Ormai è buio, m’avvio verso casa. Stasera c’è la festa di Dario, è il suo primo cinquantennio, motivo che mi ha spinto fin qui. Volevo venirci da tempo a Messina, e adesso capisco perché: mi chiamava in silenzio questo luogo, mi invitava senza palesarsi, quasi mi annuiva parole da leggere nella chiaroveggenza del mare.

Cerco una libreria prima di rientrare, ne trovo tante, di bellissime. Ne visito alcune, voglio una copia di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Nel suo libro Tomasello ne parla a lungo, lo cita sovente come un pellegrino fa con la Bibbia, è una pietra filosofale fondamentale per comprendere l’anima letteraria e spirituale dello Stretto. Ne avevo già sentito parlare tanto in passato perché è considerato l’Ulisse di Joyce della lingua italiana, e in più di un autore messinese che scrive un’opera che diventa testamentaria di un’epopea. La libreria Gilda dei Narratori è quella che più mi ispira, è ricca, grande, scaffalature infinite, ci potrei passare le settimane. I librai sono gentilissimi e la ragazza che mi serve è bellissima. Trovo la mia copia con le sue milleeduecento pagine ben compatte edizione Bur che ne sembrano trecento, non so se le leggerò mai, di sicuro ne ho l’intenzione, intanto adesso D’Arrigo è nella mia libreria col suo dorso accanto a Natoli, Pirandello, Brancati e Sciascia, ovvero dove deve stare, negli scaffali della letteratura siciliana, la più alta al mondo che potrebbe fare categoria da sola ed equiparabile solamente alla russa.

Il monumento che ricorda il soccorso offerto dai Marinai Russi ai Messinesi subito dopo il disastroso terremoto del 1908.

Passa il treno, mi porta verso ovest. Da lì poi un cambio per tornare a casa, nel profondo sud del sud, a poco più di cento miglia dalla costa tunisina. Arrivato ad Agrigento già il ricordo di Messina si è fatto corpo, si è iniettato nel sangue, m’ha già sormontato e plasmato. Ne scrivo adesso, in questa notte fredda ma pur sempre protetta dal Mediterraneo, ultima divinità trascendente a preservarci dai tentacoli della banalità liberale. Qui ritrovo la pace mentre già pianifico di tornare alla frontiera, l’unico luogo che certifica la forza di essere chi sono.

Gennaio 2023

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Written by Blasco da Mompracem

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