Racconti d’autunno:“Milano la plumbea”

Blasco da Mompracem
3 min readOct 14, 2019

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L’aria è greve mentre il treno entra in stazione. Fuligginosa è l’atmosfera, cupi i visi delle persone. Il bavero delle loro giacche copre il mento, e tutti son pronti a scattare non appena il treno si ferma. L’estate scorsa mia cugina, che vive qui da tempo, mi regalò un libro di Aldo Nove che si chiamava Milano non è Milano, dicendomi che non è possibile che a ventitré anni io ancora non abbia visitato la “più europea delle città italiane”. Voleva che lo leggessi e poi la andassi a trovare, mi avrebbe fatto divertire e scoprire una città che ha il suo fascino nascosto nelle strade che sembrano tutte uguali. Oggi è il ventiquattro di novembre e son qui, il libro mi piacque assai e sentivo il dovere di mantenere la promessa.

Uscendo dalla stazione mi inoltrai alla sinistra su Via Vitruvio, lei viveva a metà di quella strada, sulla destra. Avevo una mappa disegnata sulla mia moleskine, nonostante fossimo nel 2011 ancora non avevo un telefono intelligente, usavo scrivermi le informazioni che mi servivano e poi chiedere alla gente in caso di necessità. Quella strada era un agglomerato di gente indaffarata ad andare a lavorare, backpackers perduti, qualche mendicante, bar cinesi, kebabbari “La vera Istanbul” e qualche buon viso losco. Vidi un tram passarmi adiacente sulla strada, era un monovagone tutto in legno, portava in testa il numero 5 e strillava a ogni curva come se fossimo ancora ad inizio Novecento. Che bello - pensai - mi sarebbe piaciuto prenderlo in questa vacanza, m’affascinava più della metro d’ultima generazione. Ho sempre avuto attrazione verso il vecchio ben tenuto, sono sempre stato un sostenitore della tradizione viva.

Mia cugina viveva lì vicino, esattamente in Piazza Cincinnato. All’angolo c’era un posto che si chiamava Bar Cin Cin Nato, mi fece sorridere ma lo apprezzai. Era una vecchia insegna anni Ottanta e dava un tocco d’autenticità alla piazza. Era il quartiere che Nove nel suo libro chiama la Zona equatoriale di Milano, vi erano stanziate le più grandi comunità eritree ed etiopi in Italia. Notai subito un proliferare di sapori che venivano fuori dalle cucine dei ristoranti. Asmara, Addis Abeba, Samson, Alhambra, portavano tutti nomi che conoscevo dall’esame di Storia Contemporanea. Almeno uno di questi ristoranti l’avrei voluto provare, appuntavo.

Non era la Milano che mi immaginavo, tutta fashion e alta finanza. Almeno in questo quartiere c’era una piacevole vita sociale, popoli che si amalgamavano senza tensione, gente in bicicletta nonostante la scarsa visibilità. E con il passare delle ore anche il grigio della nebbia non era più così triste, sembrava donare bene alla città, pareva la fonte energetica dell’atmosfera urbana. Era tutto plumbeo, un plumbeo che irradiava luce, vitale e organico.

Mia cugina ormai era ambientata. Aveva sempre un evento a cui presenziare, una cena con le amiche, un concerto in un locale underground, un cinema lì e un amante là. A me dava la frenesia tutto questo dinamismo, non so se sarei riuscito a vivere in questo posto, penso che troppe cose da fare non ti fanno concentrare su nulla di concreto. Mia cugina non leggeva più, diceva che non aveva tempo, e mi rendevo conto che non era più in grado neanche di affrontare una discussione nel profondo. Ormai un argomento per lei durava poche decine di secondi, poi doveva passare subito a qualcos’altro. Era una frammentazione continua, e anche i suoi amici erano sulla stessa linea. Non so se avrei potuto viverci in questa città, non perché non mi garbasse, ma perché a me piacciono ritmi più lenti, più silenziosi, più ripetitivi.

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