Racconto di Viaggio letterario a Trieste
Un lungo fine settimana a Trieste per conoscere l’anima letteraria di una delle città più peculiari del continente. Emblema di un’identità mista ed autentica allo stesso tempo.
Arrivo
Il treno corre nel buio di una mite notte di fine inverno. Alla mia sinistra alcune case sembrano formare una scala di palazzi , in lontananza si intravede qualche luce del porto, mentre il mare riflette brillantezza anche nell’oscurità. Arrivo nella fastosa stazione ferroviaria di Trieste, costruita dagli Asburgo per collegarla a Vienna e per alimentare la trasformazione della città in un luogo nevralgico dell’Impero:
E’ un edificio giallo ocra, fiero e solido, ispirato a quella commistione di stili tra il rinascimentale e il classico che la Trieste asburgica prediligeva in particolar modo. Il tetto, a pannelli di vetro, è sorretto da colonne corinzie, figure femminili scolpite reggono corone di alloro o ruote di locomotiva e gli ambienti offrono ampio spazio per le cerimonie di benvenuto. (Jan Morris — “Trieste. O di nessun luogo).
La serata è piacevole, né sciarpa né cappello, i guanti non li ho nemmeno portati, l’inverno sembra lentamente scrollarsi via la sua aurea nostalgica. M’avvio per la città intrufolandomi per la notte triestina. Non si fa difficoltà a conoscere gente in questo luogo, o almeno nei bar. Il vino costa poco e le persone sono abituate al confronto, una città che ha fatto della multi-etnicità la sua identità. Ma non c’è il cosmopolitismo globalista delle capitali europee. Qui si discute sempre di identità, rapporti tra popoli, emi ed immigrazione. Parlano tutti con franchezza, nessuno sembra avere timore di passare per razzista o estremista per le sue affermazioni. Sembra di essere nella Nazione del politicamente scorretto, le cose che sento dirmi qui nelle altre parti d’Italia si dicono sottovoce, si camuffano con frasi perbeniste, qui si pronunciano con serenità, senz’astio, quasi con tenerezza. Sono le due del mattino, il locale dove mi sono intrufolato sta per chiudere. Il cameriere spazza gli ultimi angoli della piazza, butto giù l’ultimo sorso di vino, saluto la gente con cui mi sono intrattenuto. Chiedo istruzioni per tornare a casa, devo andare vicino la Stazione. Segui il mare mi vien detto, forse la più poetica indicazione che abbia mai ricevuto. Prendo il passo, l’aria non è più così mite, alzo il bavero del cappotto, mi stringo nel corpo mentre la brezza notturna m’accompagna al primo riposo triestino.
Jan Morris e Trieste
Trieste ha tante anime: quella asburgica, quella mediterranea, quella italiana, quella balcanica, quella di frontiera, quella di ponte di culture e civiltà. Ve n’è una però che sovrasta tutte le altre: è l’anima letteraria. Non c’è luogo, strada, scalinata, parco, quartiere, che non abbia riferimento ad un romanzo, a una poesia, a un pezzo di storia. Eppure è una città che vive in chiaroscuro, tendenzialmente se ne parla poco. Se ne parla come se ne può parlare di Ravenna o Modena, splendide città d’arte come tante altre in Italia, ma raramente viene messa in mostra per la sua particolare magnificenza e per il suo unico percorso storico. Ciò permette di mantenere vivo il suo fascino e di resistere all’invasione e alle lusinghe del turismo di massa, che qui sembra ancora non avere avventato i suoi tentacoli demoniaci. Poco più di un secolo fa di questi tempi, vivevano contemporaneamente in questa città Svevo, Saba e Joyce. Tre scrittori di un livello che oggi non troviamo nemmeno in una metropoli di cinque milioni di abitanti. Ma cosa aveva Trieste di così speciale per essere meta di così raffinati e sublimi creatori di pensiero? Sono qui per questo, e per cercare di avere un quadro d’insieme ho eletto a guida letteraria della città il libro di Jan Morris “Trieste. O di nessun luogo”, su cui ritengo doveroso fare una breve parentesi.
Jan Morris è una giornalista, scrittrice e storica gallese classe 1926. Tra il 1968 ed il 1978 ha scritto una fondamentale Trilogia sulla storia britannica, ed è divenuta anche una sublime scrittrice di viaggi. Ha conosciuto Trieste come soldato nel 1945, sì proprio come soldato. La Morris era un uomo, ha cambiato sesso solamente nel 1972. E’ stato/a a Trieste durante il periodo del TLT (Territorio Libero di Trieste) con l’esercito britannico, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nei decenni successivi è tornata diverse volte, oramai avvolta da un fascino inestricabile di questo luogo. In Italia il suo Trieste. O di nessun luogo è stato pubblicato dalla casa editrice Il Saggiatore nel 2003. E’ ritenuto uno dei migliori libri che ci siano in circolazione sulla città. E’ un’opera completa, che riesce a dare una visione d’insieme di questo posto così unico e difficilmente descrivibile. Il libro varia dalla storia ai suoi scrittori principali, dalla nostalgia asburgica alle cause che han portato all’irredentismo ed alla voglia di Risorgimento, dall’architettura maestosa al suo porto, simbolo indiscusso della grandezza di questa città, che con gli Asburgo divenne il porto principale dell’impero. In tanti hanno scritto su Trieste, molti hanno provato a descriverne il suo fascino mittleitalislavo, ma tanti hanno mitizzato, si sono lasciati trascinare su sentieri battuti e ribattuti. Gli stessi intellettuali triestini di oggi diffidano parecchio di chi scrive sulla loro città, ma della Morris hanno un gran rispetto, tutti, nessuno escluso! La sua opera è ritenuta di un livello superiore e può essere inclusa tra le letture fondamentali per comprendere questa città. Basta solo farsi il callo (anzi l’occhio) all’uso , durante la narrazione, del femminile nel presente e del maschile nel passato.
A me Trieste in una serata autunnale suggerisce l’opera di quei pittori vittoriani che si erano specializzati nella raffigurazione di porti di mare sul finire del giorno, in cui il pallido chiarore dei lampioni a gas si rifletteva sul selciato umido e le finestre delle locande apparivano tenuemente illuminate. (Jan Morris — “Trieste. O di nessun luogo”).
Luigi Tracanelli (parte I)
Quella mattina si svegliò con un moto di incandescenza interiore. Una di quelle sensazioni che rimangono vive per i primi minuti quando s’aprono gli occhi, sospeso tra magia e irrealtà. Rimase un po’ più del solito a letto. Guardò a lungo il tetto, poi la finestra e la luce che entrava, sentiva che era un giorno importante. Decise che doveva farlo, se non avesse rischiato le cose sarebbero marcite nell’inerzia. Era un giorno feriale di febbraio, era il 1946. La guerra era finita, il giro di boa di un anno stava per compiersi, ma a Trieste le cose non erano come nel resto d’Italia. La città era divisa tra la zona del Territorio libero di Trieste sotto gli americani e gli inglesi (zona A) e la zona sotto il controllo di Tito (zona B). Ma soprattutto c’era la solita fame di ogni dopo-guerra. Luigi aveva appena vent’anni, era stato partigiano, aveva combattuto sulle montagne del Friuli con la Brigata Osoppo nell’ultimo anno di guerra. Ne era tornato sano e fiducioso, ma adesso era disoccupato, come tanti ex-partigiani in quegli anni era passato dalla passione della lotta per la liberazione alle giornate infinite, sepolto in casa, attendendo qualcosa, qualcuno. Spesso si domandava per cosa avesse combattuto, se la pace significava questa vita allora qualcosa era andato storto. Era tormentato da questa situazione, un uomo che non lavora è un uomo che prova vergogna, non di un crimine, non di una colpa, ma di una condizione, che col passare del tempo colpisce la psiche, i sentimenti, i legami, è deleteria e logora l’anima. La guerra era finita, la sua no.
Identità
Al mattino l’aria è tonica, il cielo aperto, le strade chiamano. M’incammino per il centro della città, il Borgo Teresiano e i Moli, Piazza dell’Unità e Piazza della Borsa, tutte le meraviglie che questa urbe offre sono vicine e armoniose. Trieste è una città da guardare con gli occhi in alto, ammirando la magnificenza nobile dei suoi edifici possenti, eleganti e virtuosi. Non c’è una crepa nei suoi palazzi, un colore schiarito, un minimo segno di decadenza. A Trieste l’architettura è poesia, è un padre del tempo e un protettore dello spazio. Dà sicurezza e ordine, piacere e rilassatezza. E’ un continuo incantarsi il semplice camminare senza meta. Ogni tanto sbuca una statua di Joyce, un caffè letterario, una copia de “Il Piccolo” abbandonata vicino le rive. Gabbiani, odore del mare, gente che va con passo leggiadro, e a pochi chilometri inizia l’Est, quel mondo che fu diviso da una cortina non so quanto di ferro, ma sicuramente molto dolorosa, almeno da queste parti.
Qui finisce l’Italia. Qui finisce l’estate.
(Pier Paolo Pasolini)
Per provare a capire questa città è necessario comprenderne appieno la sua posizione nel continente e nella storia. Sono passati poco più di cento anni da quando l’Audace toccò le rive del porto triestino e la città divenne italiana completando il progetto risorgimentale, approfittando della dissoluzione dell’impero asburgico. Ma non sono stati cent’anni semplici. Il fascismo ha tentato di ridare un’identità romana alla città, attraverso una continua propaganda ed atti estremi tipici del tempo, uno dei più eclatanti fu sicuramente la distruzione dell’Hotel Balkan, centro culturale e polivalente sloveno dato alle fiamme nei 1919 dagli squadristi con la connivenza della polizia. Anche negli anni della prima guerra mondiale la situazione fu paradossale, il governo austriaco chiamava a combattere contro l’Italia tanti italiani triestini, che si rifiutarono. L’irredentismo nasce fondamentalmente qui nella seconda metà dell’ottocento, ma è un argomento complesso che richiede conoscenze molto specifiche, difficile da esplicare in questa sede. Proverò più che altro a provare a tracciare con umiltà un profilo identitario della città. Il libro della Morris riprende a riguardo una citazione del poeta, scrittore, militare e irredentista Scipio Slataper, il quale diceva che nel carattere di Trieste si mescolavano:
La nostalgia slava, la sicurezza tedesca e un istinto italiano per l’armonia.
Tre mondi e tre modi di vivere che si incrociano in questo preciso punto della terra, generando un’identità difficilmente comprensibile utilizzando solamente i parametri della ragione. Diverse persone con cui mi sono confrontato mi hanno detto che camminando per Vienna si sentono più a loro agio che a Roma, ma non lo dicevano con sciovinismo o con quel retrogusto disperante e insopportabile dei sudtirolesi, lo dicevano con serenità, con grande amore per l’Italia, con rispetto della loro unica tradizione, della loro formidabile storia. Gli Asburgo hanno fatto diventare questa città il porto dell’Impero Austro-Ungarico, ciò ha portato anche ad un incredibile sviluppo finanziario che ha attratto comunità da tutto il mediterraneo: greci, serbi, croati e, tanti, ebrei. A Trieste c’è una delle Sinagoghe più belle d’Europa, c’è una splendida Chiesa Ortodossa, folte comunità slovene. Tutt’ora la sua personalità è di difficile definizione ma non è vacua come quelle città cosmopolite a cui la globalizzazione ci ha abituato nell’ultimo ventennio dove non esistono più abitanti locali. I triestini sono presenti, amano la loro città, la loro identità. La portano avanti e la alimentano quotidianamente con fierezza. In ogni casa c’è una libreria con testi dedicati a Trieste: libri di fotografia, di storia, romanzi, poesie, documenti, ogni volta che trovano in giro un libro che parla di Trieste lo comprano e lo portano dentro. Nell’era della globalizzazione selvaggia che vuole distruggere ogni autenticità in nome dell’omologazione dei popoli, Trieste è una città che resiste, che si ama, che si cura, che si rafforza.
Ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza. La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale.
(Claudio Magris — “Cronologia Meridiani”)
Italo Svevo e James Joyce
Sarebbe stato più corretto dedicare un capitolo ad ognuno di questi scrittori che hanno cambiato il corso del novecento con il loro pensiero. Sarebbe stato più corretto attendersi un approfondimento di queste due personalità, la cui amicizia è simbolo stesso della città. Su Trieste in tanti hanno scritto della sua anima letteraria, in tanti hanno messo in evidenza il rapporto magnifico tra questi due sublimi scrittori. Mi piace però voler mettere l’accento su come queste due personalità letterarie sono state il volano per la crescita turistica di un luogo. La città di Trieste è tappezzata di targhe, statue, memoriali, rimandi e percorsi sui due autori. Joyce, da buon irlandese qual’era, amava le taverne e la vita sregolata. Svevo era la perfetta espressione delle due identità triestine, quella italiana e quella austriaca. I suoi contemporanei lo snobbavano, ma lui aveva studiato in Germania e padroneggiava perfettamente il tedesco. Mentre i vari D’Annunzio s’infiammavano con le teorie di Nietzsche, lui rimaneva mansueto, avendo conosciuto, e a fondo, le teorie del filosofo tedesco molto prima ed in lingua originale. La loro fu un’amicizia che poteva nascere solo in una città come Trieste, con quest’aurea di sublime spiritualità incarnata da un porto mastodontico e tre identità che si fronteggiano nel quotidiano. Joyce venne qui per insegnare inglese, Svevo fu suo allievo perché doveva andare a gestire una fabbrica di famiglia in Inghilterra. Ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia sul rapporto tra Trieste e i due scrittori, per questo è meglio fare una visita accurata al Museo di Svevo e Joyce, sito in Via Madonna del Mare 13, molto vicino a Piazza dell’Unità. Una volta lì prendetevi del tempo e ammirate con calma i vari cimeli nelle teche, e chiedete del Direttore del Museo, una persona di una conoscenza onnivora sui due autori, che vi guiderà nella vita della Trieste di cento anni fa, quando era epicentro dell’intelletto d’Europa.
Si trovavano sempre all’aperto. Amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea ch’era troppo frequentato, e per qualche tempo preferirono la strada d’Opicina fiancheggiata da ippocastani folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile. Si fermavano a un pezzo di muricciuolo che divenne la meta delle loro passeggiate soltanto perché la prima volta vi si erano assisi. Si baciavano lungamente, la città ai loro piedi, muta, morta, come il mare, di lassù niente altro che una grande estensione di colore misterioso, indistinto: e nell’immobilità e nel silenzio, città, mare e colli apparivano di un solo pezzo, la stessa materia foggiata e colorita da qualche artista bizzarro, divisa, tagliata da linee segnate da punti gialli, i fanali delle vie.
(Italo Svevo, Senilità)
Luigi Tracanelli (parte II)
Fece colazione, diede un bacio al fratello minore che andava a scuola. Aveva un carattere chiuso, molto taciturno, non era di compagnia, ma era affettuoso con i parenti. La guerra l’aveva irrigidito ulteriormente, dentro di sé aveva voglia di mutare, di vivere i vent’anni che aveva, ma soffriva i traumi del conflitto vissuto in prima linea. Si soffermava spesso a guardare la sua tessera di partigiano, ne andava fiero e orgoglioso ma allo stesso tempo gli dava un sentimento di gabbia, di cui avrebbe voluto sbarazzarsi. Aveva un amico di nome Giacomo. Erano molto legati, avevano fatto le stesse scuole, giocavano insieme fin da piccoli rincorrendosi per i dedali della città vecchia. Giacomo aveva un lavoro come impiegato in un’agenzia legata al commercio delle navi, aveva provato diverse volte a convincere il suo capo a dare una possibilità a Luigi, ma la risposta era sempre la stessa: al momento siamo pieni. Giacomo aveva una madre invalida, che si faceva fare i servizi di lavanderia da una donna slovena, Darja. Veniva una volta a settimana, faceva un fagotto di lenzuola e biancheria varia, la portava al suo paese in zona B, giusto qualche chilometro prima della frontiera, e poi tornava la settimana successiva, lasciava il bucato fresco e faceva un altro fagotto. Tutto ciò andò avanti per quasi sei mesi dopo la guerra. Ma da dicembre del 1945 Darja non tornò più. Aveva con sé due paia di lenzuola grandi, diversi asciugamani e molta biancheria intima, beni di primaria necessità, soprattutto in un dopo guerra.
Luigi mirò la pendola che scoccava le nove. Si sentiva bene, accese la radio. Si rasò di fronte lo specchio, con indosso una canotta ormai più gialla che bianca. Passò lentamente la lama sul viso, doveva prestare particolare attenzione perché ormai era parecchio usurata, aveva fatto circa dieci barbe e non scendeva più soavemente, non aveva i soldi neanche per prenderne una nuova. Gli montò la rabbia in quel momento, poi guardò fuori dalla finestra e si quietò. L’aria era fresca, il cielo terso, la luce del sole nitida. Era una di quelle giornate di febbraio che comincia lentamente e preannuncia un cambio di stagione. Cercò nell’armadio del padre qualche indumento più decente dei suoi. Trovò un pantalone scuro e una maglia pesante a dolcevita, la giacca invece era la sua, un vecchio montone che l’aveva accompagnato nei lunghi mesi di trincea, teneva caldo anche nelle condizioni climatiche più estreme, quello non l’avrebbe mai abbandonato anche se fosse stato ridotto uno straccio, aveva giurato che se lo sarebbe portato nella tomba. Tornò al lavabo, lo pulì dai rimasugli della rasatura. Si guardò allo specchio, si pettinò, si guardò ancora. Aveva fiducia, le cose sarebbero cambiate. In guerra aveva cominciato ad ascoltare il suo cuore, a dare voce al suo spirito. Aveva deciso che sarebbe andato a cercare la lavandaia slovena e recuperare le mercanzia della madre di Giacomo, il quale sicuramente gli avrebbe fatto un regalo per quel gesto. Lui una volta l’aveva vista a casa dell’amico mentre faceva la consegna e ripartiva. Il paese in cui viveva si chiamava Osp, era a soli dieci chilometri da Trieste. Vi vivevano poche centinaia di persone, era certo che l’avrebbe trovata agevolmente. Mentre il sole era alto sul cielo triestino, si sentiva forte e pronto a rinascere, e amava pedalare. Dopo un lungo inverno era la mattina giusta per rimettersi in sella, aveva una missione.
Notte
Gli spritz hanno un colore bianco, vino e acqua gassata. Si versano su pinte, scorrono agevoli nelle ore che diventano sempre più piccole. I locali sono pieni di gente, non vi sono posti per turisti e posti per nativi, qui si vive un’unicum umano. Il chiacchiericcio s’alza d’intensità coll’aumentare degli spritz. C’è una band nel bar, i componenti hanno il viso dipinto, c’è un contrabbasso e un violino pazzo, una chitarra ed una splendida voce. I ritmi balcanici riemergono dalle viscere del mare, l’atmosfera diventa subito l’espressione multietnica della città. Le donne portano vesti ampie, moderne e tipiche. Gli uomini non hanno nulla di particolarmente rilevante. Al bancone attacco bottone con chi capita. C’è un serbo, una sarda, un patriota triestino che si professa italofono (non italiano), un turista austriaco che dice di sentirsi a casa. Ammetto che questa terra di confine è particolarmente accogliente, non lo fa per spennare il visitatore secondo i metodi che il dogma turistico sta inculcando nell’era contemporanea, lo fa perché fondamentalmente ai suoi abitanti piace chiacchierare, e chi è di fuori è come gli altri, perché tutti sono di qualche altra parte, in qualche modo. Ecco, Trieste è un luogo da studiare antropologicamente, di come le culture possono, secondo i periodi storici, convivere in pace, mischiarsi e sposarsi tra loro. Ma non cadiamo nel facile tranello globalista no border che questo modello sia facilmente applicabile da qualunque altra parte. Ci vogliono secoli per arrivare a qualcosa di simile, bisogna passare da periodi illuminati all’oscurità più profonda per trovare un equilibrio. E neanche credere che sia sempre stata così gioiosa l’atmosfera, anche Trieste ha conosciuto rabbia e violenza inaudita. Basti pensare che l’unico campo di concentramento in Italia durante la seconda guerra mondiale è stato qui. Ma è notte ed è tempo di gioire della musica, del cibo, del vino e delle genti lungo il cammino. Mentre s’avvicina la mezzanotte il concerto termina, la banda si rilassa fumando e spizzando ciò che resta del buffet, una birra fresca, risate di soddisfazione. E’ tempo di muoversi mi dicono, c’è una festa.
E’ un incamminarsi lungo, piacevole, stancante. Dall’entrata del porto, si seguono rotaie di tram ormai in disuso da almeno un secolo. Ruggine e vegetazione l’hanno resa un cimelio, ma continua ad incutere un certo rispetto. Alla sinistra cominciano a susseguirsi immensi edifici dall’aspetto abbandonato, finestre rotte, qualche murales. Si ripetono una, due, tre, quattro, non so più contarli. Sono troppi. Tutti in decadenza, non ho mai visto così tanti edifici susseguirsi in questa stato. Sono i vecchi magazzini del porto, del periodo d’oro asburgico. E non bastavano mai, ve n’era sempre qualcuno in costruzione. Farsi una passeggiata qui può rendere davvero l’idea della potenza commerciale e finanziaria che questa città aveva acquisito con gli austriaci. Transitavano così tante navi che connettevano l’impero con il mondo, che non v’era mai abbastanza spazio per la ricchezza che s’accumulava. Nel mentre arriviamo alla festa, è in uno di questi super mega magazzini, tutto ha la sembianza dell’abusivo tollerato. Mettono musica tecno, fanno i cocktail senza ghiaccio a un euro, ambiente da love parade. E’ la notte in cui compio gli anni, sempre più vicini al quattro iniziale. Resto un po’, provo a dar l’aria d’essere ancora giovine, dopo poco le ginocchia m’abbandonano. Ringrazio e costeggio il porto tornando. L’aria di mare è sempre il miglior viatico per accompagnare il sonno.
Il caffè San Marco e Claudio Magris
Via Battisti è una strada molto trafficata. I rumori delle auto si amplificano fino al fastidio. Non so perché ma in molte altre strade della città l’eco è frastornante. Forse sono gli edifici possenti o le strade non troppo ampie, ma è un contrasto continuo che s’alterna errando per la magnificenza triestina. A metà di questa strada si trova uno dei caffè storici della città, è il Caffè San Marco. Ritrovo dal 1914 di studenti, scrittori, gente che ama leggere il giornale, donne che chiacchierano, in un’atmosfera sospesa nel tempo che rigetta la modernizzazione della moda e del fatturato. Il raffinatissimo scrittore triestino Claudio Magris, classe 1939 e candidato al Nobel ogni anno da almeno da trent’anni, nel suo Microcosmi gli dedica un capitolo intero. Accantono per un attimo il libro di Morris, per vivere il San Marco ripercorrendo le pagine dell’opera di Magris che, tra le altre cose, è anche uno dei più importanti scrittori di viaggio contemporanei (chiedere di Danubio ai posteri).
Il San Marco è un’arca di Noè, dove c’è posto, senza precedenze né esclusioni, per tutti, per ogni coppia che cerchi rifugio quando fuori piove forte e anche per gli spaiati.
E’ un sano primo pomeriggio. Entro sereno al Caffè San Marco. Qualche tavolo è occupato, non molti. Una studentessa bionda lavora al suo computer con dei fogli dove prende appunti, una donna incinta e una matura dialogano in inglese, un turista sperduto ha quasi timore a scattare delle foto, un’altra ragazza legge, un cameriere gentile ed elegante mi saluta. Le sedie sono di pelle e il tavolo di marmo, barcolla un po’ ma con stile. Il locale è tutto in legno vivo, un legno che dà luce agli ambienti e rilassa gl’animi.
Amato dagli scacchisti, il Caffè assomiglia a una scacchiera e fra i suoi tavolini ci si muove come il cavallo, girando di continuo ad angolo retto e ritrovandosi spesso, come in un gioco dell’Oca, al punto di partenza, a quel tavolo dove è stato preparato l’esame di letteratura tedesca e dove ci si ritrova, molti anni dopo, a scrivere o a rispondere all’ennesima intervista su Trieste, la sua cultura mitteleuropea e la sua decadenza, mentre poco più in là un figlio corregge la sua tesi di laurea o un altro, nella saletta in fondo, gioca a carte.
Non si può comprendere l’anima letteraria di questa città senza vivere i suoi Caffè storici, che già a metà ottocento fiorivano ad ogni angolo. Il Tommaseo, il Caffè degli Specchi, del Tergesteo, della Stella Polare, sono tutti icone di Trieste e del suo spirito più poetico. Ancora oggi conservano lo stile asburgico e la sua eleganza, ambienti dove ognuno è se stesso, dove ci si mette in mostra senza eccessi di egocentrismo, dove l’atmosfera ricalca l’amore per un’identità autentica, per un tempo che si desidera perenne, scolpito nei secoli. Il Caffè San Marco è un luogo sano e non assalito dalla orde turistiche, vige ancora un’aria da caffè viennese, Beethoven in sottofondo scandisce la lentezza del tempo. Non c’è ansia ne frenesia. Si sentono i rumori delle tazzine che vengono pulite, una risata lontana, il tintinnio del tavolo su cui sono chino a scrivere. Non si vedono amorfe nullità erranti.
Il caffè è un luogo della scrittura. Si è soli, con carta e penna e tutt’al più due o tre libri, aggrappati al tavolo come un naufrago sbattuto dalle onde. Pochi centimetri di legno separano il marinaio dall’abisso che può inghiottirlo. Basta una piccola falla e le grandi acque nere irrompono rovinose, tirano giù. La penna è una lancia che ferisce e guarisce; trafigge il legno fluttuante e lo mette in balia delle onde, ma anche lo rattoppa e lo rende di nuovo capace di navigare e tenere la rotta. Afferrarsi al legno, senza paura, perché il naufragio può essere pure salvezza.
Passano delle ore con ritmi triestini, ammiro la forza di questo luogo, i suoi lampadari, le divise e la gentilezza dei suoi camerieri, gli spazi ampi, la gente che si ammira senza malizia né competizione. La mobilia è decorata, maschere in alto fanno mille smorfie, il caffè è buonissimo. E la libreria che si trova all’interno del Caffè San Marco è una delle più invoglianti che abbia mai visto. Lunga e larga, con migliaia di libri sugli scaffali, con quadri, statue, ritratti e grandi specchi che si alternano all’odore mistico della carta. Un museo più che una libreria, un luogo da ammirare in ogni centimetro per stupirsi e continuare a esaltare questa città, così unica e così ammaliante, in grado di attrarre a sé chi ancora vive di emozioni e chi non ha la mano plasmata dal telefono intelligente.
Nonostante sia uno dei pochi posti a Trieste in cui si vedono parecchi giovani, il San Marco è un lifting dell’esistenza, sembra tracciare sui volti degli habitués quella robustezza attempata e decorosa che, periodicamente, i restauri conferiscono al suo arredamento.
Luigi Tracanelli (parte III)
Portò la bici giù a braccio. Quando aprì il portone si rese conto che la giornata era più limpida di quanto avesse percepito mentre era in casa. Sentì lo stridere di una nave in lontananza, alcuni gabbiani liberi si muovevano nel cielo terso. Poggiò la bici per terra, controllò le gomme, tirò fuori dalla tasca il berretto, guardò la strada in entrambe le direzioni. Montò e s’avviò. Viale D’Annunzio è la strada dov’era cresciuto, alberi spogli e case popolari costruite durante il fascismo. Quanto gli piaceva il suo quartiere, lo sentiva parte della sua vita, un sentimento che si sedimenta e si fortifica col passare degli anni. Non se ne sarebbe mai voluto andare da lì. Ingranò il pedale.
Partì direzione confine, è tutta discesa all’inizio. La mite frescura di questa giornata solare gli scosse il viso, l’aria in faccia lo svegliò dal torpore delle giornate passate in casa. Sentì la tonicità nelle gambe, i muscoli che si riattivavano. Trieste era ai suoi piedi, prese velocità mentre attraversava la galleria buia, lasciò i pedali per rifiatare, sapeva che stava facendo la cosa giusta. Passò dalla zona dei cimiteri, mentre sulla sua destra si diramava la campagna triestina con i suoi caseggiati, i suoi camini, i suoi abitanti che mestamente s’avviavano per le spese mattutine. L’ampia e veloce Via dell’Istria lo stava esaltando, non andava in bici dall’autunno passato, amava quelle prime avvisaglie di primavera che annunciavano mesi di luce e forza a discapito del grigio e della bora. Passò davanti lo stadio Comunale (che fino a due anni prima si chiamava Littorio), gli tornò in mente quella domenica di festa del 1938, quando suo padre l’aveva portato a vedere la Triestina contro la Juventus conclusasi con uno storico due a zero per i padroni di casa. A fine partita gli spalti erano uno sventolio continuo di bandiere rosso-alabarda, e ricordò quella sensazione da pelle d’oca, gli abbracci, le lacrime di gioia, la fierezza di essere riusciti nell’impresa. Da adolescente amava il calcio, Nereo Rocco era un simbolo della città quanto i suoi poeti. Ma il fascismo aveva fatto di questo sport uno strumento di propaganda, man mano che cresceva il suo spirito partigiano cominciò a rigettare ogni simbolo che potesse essere legato al regime. Ciononostante, vedere di nuovo lo stadio, gli fece ricordare quella sensazione di allegria, di senso di comunità, gli fece anche ricordare quanto volesse bene a suo padre, quanto era stato in pensiero mentre lui era in guerra. Aveva saputo che aveva ripreso a frequentatore la chiesa, che pregava ogni giorno affinché lui rientrasse vivo dal confine. Durante le lunghe notti al gelo della trincea, tra un fiammifero che non si accendeva e una bottiglia di whisky che aiutava a allietare la paura, pensava spesso a suo padre. Al rapporto conflittuale che aveva avuto con lui, alle incomprensioni continue, sentiva di avere sbagliato e che doveva riscattarsi, la guerra fa diventare uomini, pensava.
Le gambe erano ormai sempre più sciolte, i pensieri fluivano più leggiadri, sentiva il corpo sempre più vigoroso, la mente che si ripuliva. Guardava il paesaggio e rimembrava: là un ricordo, lì un legame, dritto l’ignoto. Continuò a scendere per Via Flavia, una piccola edicola sulla sinistra, degli ambulanti sul bordo della strada. Tirò dritto. Cominciava a sentire le prime avvisaglie di sudore sulla nuca, il dolcevita sarebbe stato più adatto a una passeggiata sulle rive — pensò — che a un’attività motoria. Attraversò la zona industriale, l’odore di caffè lo assalì. Era l’area delle torrefazioni, dove si tostava il caffè che aveva reso la città celebre in tutto il mondo. L’insegna Illy era già la più grande, il suo edificio il più imperioso, sembrava gettare un’onda di dominio sulla città. Sapeva che i portuali rubavano un paio di chili al giorno di caffè crudo dalle centinaia di sacchi che maneggiavano, lo andavano poi a rivendere sottobanco. Era il dopo guerra, era la fame.
Continuava ad andare a buona velocità. Il sellino era ergonomico, la sua postura perfetta. Adesso il suo stato di esaltazione dei primi chilometri si stava calmierando, tornava lentamente alla normalità, sentiva anche che il paesaggio era sempre meno triestino, l’atmosfera lentamente mutava d’ispirazione. Varcò il paese di Aquilinia, dove c’era la raffineria Aquila, che un giorno si sarebbe chiamata Total. Era un paese costruito per i dipendenti della fabbrica, sapeva che venivano ingegneri da tutto il mondo per studiarne gli ingranaggi. L’aria si fece più acre, conati di chimico lo attaccarono alla gola, ma fu la vista della fiamma immane sopra la torre metallica a farlo alterare. Quella visione gli portò alla mente i colpi di mortaio nelle notti di guerra. Quando li osservava, al riparo dalla feritoia, poi non riusciva più a prendere sonno. Rimaneva con gli occhi spalancati a guardare il cielo nero, avvolto con una coperta sulle spalle mentre provava a pensare ai suoi fratelli, al padre che si faceva il nodo della cravatta la domenica mattina, alla madre che continuava ad avere l’accento austriaco. Poi, verso l’alba, crollava, e i suoi sogni cominciavano a essere invasi da fiamme alte come palazzi che lo circondavano e minacciavano di portarlo negl’inferi della terra. Si svegliava di soprassalto gridando, i compagni riuscivano a calmarlo. Quelle fiamme gli ardevano il sonno, e adesso rivederle lì svettare fiere in tutta la forza del suo elemento essenziale, gli facevano venire in mente cattivi presagi.
L’autobus
Ci sono molti modi di vedere una città. Ci sono i percorsi a piedi con le guide che esplicano la storia, o una passeggiata con i locali che spiegano come si vive la quotidianità, o seguire le indicazioni che il Comune pone nei vari luoghi simbolo per orientare il visitatore. A Trieste c’è anche un altro modo per conoscerla: salire sull’autobus 42 a Piazza Oberdan e scendere al capolinea a Opecina. E’ tutto in salita, tra strade strette e l’immenso Adriatico che s’apre sulla sinistra. Supera il Faro della Vittoria e attraversa le località limitrofe: Prosecco, Grotta Gigante, Repen, Monrupino. E’ il Carso profondo, un paesaggio arido dalla terra possente. I piccoli paesi che si attraversano difficilmente superano i mille abitanti, le bandiere slovene cominciano a sventolare dai balconi. Mi siedo e faccio amicizia col mio vicino. E’ un pensionato oltre la novantina, originario del Salento che si trasferì qui nel 54 quando Trieste tornò italiana e aveva bisogno di forza lavoro. Vedovo da un qualche anno, invalido, molto solo, ogni giorno prende un autobus diverso, si siede negli ampi sedili di fianco al finestrino, e ammira il paesaggio riavvolgendo il nastro della sua vita. Arriva al capolinea e attende che il bus si riempia di nuovo per poi tornare in città. Passa così i pomeriggi, con lo sguardo che si perde verso i paesaggi dell’esterno. Trieste è la città degli autobus, c’è una fermata ogni duecento metri, quasi in ogni strada. Trieste è una città con molti anziani, i servizi vengono sviluppati anche in base alle loro esigenze, eredità asburgica. Nel mentre entrano un gruppo di adolescenti, truccate troppo pesantemente per la loro età, cominciano a parlare lingue slave. Hanno il profilo duro, un abbigliamento estremamente provocante, sembrano più grandi dell’età che hanno effettivamente. Le guardo coperto dalle mie lenti scure, sono donne dell’est, questa è una terra di confine.
Il mio vicino e interlocutore si chiama Generoso, che nome meraviglioso! Sono interessato alla sua vita, a come vive queste lunghe giornate in solitaria. E’ un uomo saggio, buono, che emana forza e indipendenza. Se dovessi mai arrivare alla sua età — penso — chissà come sarei. Riesce a fare la spesa da solo, a radersi, a cucinarsi, a lavarsi. Il bastone lo accompagna, il suo viso è intarsiato da rughe forti, i suoi zigomi sono alti, il suo sguardo richiama decenni in chiaroscuro. Ha una pensione di ottocento euro, vive in una casa popolare, una vicina molto gentile lo aiuta quando ha di bisogno, non ha figli né parenti, neanche in Salento. E’ solo, ma non ha l’aria di attendere ansiosamente il grande giorno, sa di dover andare avanti finché potrà. La sua vicinanza mi rafforza, la sua saggezza m’illumina. Mi piacciono queste persone, che non si lamentano, che lottano in silenzio, che continuano a cercare emozioni. Nei miei viaggi i miei monumenti preferiti sono uomini come Generoso, che trasmettono fede e forza nello spirito.
La gioventù è la conquista di una vita maturata nella lotta contro la routine, il cinismo, il sonno della coscienza, è l’aver districato dal mondo la potenza isolatrice di uno stile, ciò che ci appartiene dalle origini e quindi per vocazione e destinazione, in un equilibrio costante tra strategia ed entusiasmo che è come il camminare sul filo del funambolo. E’ l’esser desti e attivi in una guerra permanente contro la vecchiaia e la morte spirituale, la volontà di affermarsi sempre oltre i lutti, gli scacchi e le secche della vita, portarsi oltre la consapevolezza della propria finitudine, scommettere su ciò che va oltre la propria vicenda personale.
(Riccardo Paradisi — “Un’estate invincibile. La giovinezza nella società degli eterni adolescenti.”)
La libreria Umberto Saba
Nel cuore del borgo teresiano, a due passi da Piazza della Borsa, sorge la storica libreria del poeta triestino Umberto Saba, l’autore de Il canzoniere. Quest’anno compie il suo primo secolo di vita, e se li porta tutti. Dall’esterno sembra uno di quei negozi che si vedevano nei film del neorealismo. Legno antico sotto due archi legati da capitelli d’alta scuola. Una vetrina con pochi libri, tutti ingialliti. La maniglia cigola, il pulviscolo atmosferico trionfa. Le pareti sono colme fino all’orlo di libri, la sala ha una forma trapezoidale, i testi sono accatasti con discrezione. Mentre gli acari della polvere si manifestano fino a creare un’entità tangibile, arriva il libraio, il buon Sig. Mario. E’ gentile ma frustrato da una vita passata in questo luogo, che avrà pure un sapore mitologico ma che non dà proprio una sensazione di benessere. Inveisce contro la Mondadori che non gli ha voluto mandare i Meridiani su Saba perché non aveva il conto aperto con loro, si lamenta che entrano orde di turisti che fanno foto ma non comprano neanche un libro da dieci euro. Lo capisco il Sig. Mario, non penso che fatturi più di qualche centinaio d’euro a settimana. Vede tutta la città campare sui suoi scrittori e lui che rimane sepolto lì, lui che ha la libreria di uno dei più grandi poeti del novecento italiano, lui che si meriterebbe la pensione d’oro per aver tenuto viva un’istituzione, contro ogni legge del mercato che voleva annientarlo, lui che ha resistito per decenni contro il fiorire dell’editoria delle copertine ideate dai grandi designer.
Ma è anche un uomo profondo il Sig. Mario, il colore del suo viso è in armonia con l’ambiente che lo circonda, ha le rughe profonde dei librai antiquari, i capelli ondulati come le pagine di un testo del settecento. Mi narra la storia della libreria, chissà quante volte l’ha ripetuta, ma sembra farlo con estremo piacere: nel 1919 Umberto Saba la rilevò da un’altra gestione, vi lavorò tanti anni ma non riusciva a conciliare con i suoi altri impegni. Assumeva continuamente commesse che dopo poco se ne scappavano, a causa del suo carattere scorbutico. Fino al 1924, quando assunse un garzone di appena 17 anni. Questi era il padre del Sig. Mario, che vi passò tutta la vita e, quando Saba morì nel 1957, rilevò tutta l’attività che poi passò al buon Mario, che ancora oggi la tiene viva con tante difficoltà e tanto amore. E’ una di quelle persone che sembra lamentarsi sempre ma che non si riuscirebbe a vedere in nessun altro luogo al mondo. Chiedo qual è il testo più antico presente negli scaffali, con orgoglio tira fuori “Le opere morali di San Gregorio” del 1484. Mi dà l’onore di sfogliarne qualche pagina, non ne comprendo neanche una sillaba, ma la rilegatura è ancora forte, il bianco della pagine ancora discretamente candido. Faccio qualche foto di rito, acquisto una copia della poesia Trieste in un’edizione che ripropone il poema in diciassette lingue differenti, con delle illustrazioni e alcune foto d’epoca di Saba. Un ricordo che porterò sempre con me del Sig. Mario, Mario Cerne nome completo. Mi illustra anche il retro semibuio con altre sale piene zeppe fino al tetto di libri antichi, poi mi mostra la macchina da scrivere di Saba, un ritratto composto coi chicchi di caffè, la foto iconica e originale di Saba curvo che cammina con bastone, coppola, pipa e cappotto alla caviglia.
E’ tempo di andare, saluto il Sig. Mario con affetto e reverenza. Perché bisogna sempre onorare chi non si piega, chi porta avanti una tradizione, chi dà voce a un tempo che altrimenti si dissolverebbe nel nulla contemporaneo. Uscendo dalla libreria m’avvio verso i moli, mi siedo sulla banchina, ammiro i gabbiani, osservo il golfo di Trieste che esprime fierezza, storia e poesia. Col passare del tempo comincio a percepire, sempre più intensamente, la profonda anima letteraria di questa città. E’ più una sensazione che una ragione, è un qualcosa che fa vibrare ogni corda di ogni nostro senso e ne esalta la spiritualità. Apro il libro che ho appena preso, leggo la poesia lentamente, con una voce soffusa accompagnata dal soave mormorio del mare:
Trieste
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Luigi Tracanelli (parte IV)
Passato il rimando dei cattivi ricordi della guerra causato dall’immensa fiamma sopra la raffineria, si riprese d’animo. Da lì iniziò un tratto in discesa verso Muggia, si ritrovava le colline istriane da un lato e il mare dall’altro. Qualche casa di campagna, alcune galline, dei girasoli e impalati spaventapasseri erano ciò che gli si manifestava davanti. Da lì a breve si trovò al controllo documenti per accedere in zona B, sempre a sovranità italiana ma sotto il controllo degli iugoslavi, non era né un confine né un controllo doganale, era una rapida verifica della persona, come fosse un posto di blocco, dove mettevano un timbro con il lasciapassare. Aveva con sé anche la tessera dei partigiani, qualora dovessero creargli problemi era certo che quella l’avrebbe tirato fuori da potenziali questioni. Non ebbe particolari difficoltà e si ritrovò nel Carso più autentico, col paesaggio che cambiò radicalmente: roccia calcarea arida, terra fertile e rossa, poco verde. Un continuo alternarsi di discese e salite impervie gli fece sentire i primi cenni di fatica, ma gli spiragli primaverili e l’aria pulita gli diedero nuovamente linfa e forza nelle gambe. Nelle rare abitazioni che vedeva sulle colline spuntava qualche bandiera iugoslava e alcune scritte inneggianti a Tito. Dopo poco più di venti minuti si trovò all’entrata del paese di Osp, rallentò la pedalata.
Era un piccolo paese sotto un’immensa montagna carsica grigia possente, ne aveva visti tanti di paesi così quando era in guerra, eran quelli i posti dove si nascondevano e si rifocillavano i soldati. Ma lo colpì particolarmente il candido e gradevole odore di bucato che emanava quella cittadina, era un trionfo di lenzuola bianche che si agitavano al vento. Parò un attimo per meglio osservare quello spettacolo, per memorizzarlo inebriandosi di quella fresca fragranza che gli riempiva i polmoni di purezza e la vista di un senso di pace. Era un paese bianco e, per quel che intuiva, tutti lavavano il bucato. Scese dalla bici, la portò a mano ed entrò lentamente nel paese. Un lenzuolo si apriva su un pezzo di muro dove notò la scritta Trst je naš (Trieste è nostra), alcune donne campagnole interruppero i loro lavori da lavandaia per scrutarlo con sguardo più che interrogativo, suonò la campana della Chiesa.
Rifiatò un attimo e si avvicinò a quel gruppo di donne. In sloveno chiese se conoscessero una tale Darja che faceva la lavandaia per una signora di Trieste. Una ragazza gli rispose, in perfetto italiano, che tutte le donne del paese facevano le lavandaie per signore, detto con parecchio disprezzo, di Trieste. Ma era fortunato perché di Darja ve n’era solo una, e gli indicò il luogo dove poteva trovarla. Ringraziò e s’avviò per il minuscolo paese, poche centinaia di abitanti, poche case, molte salite, l’imponente montagna a dominarne l’atmosfera e la fragranza di bucato che accompagnava la giornata.
Darja era piegata a lavorare sul lavatoio basso di fronte casa sua, lo riconobbe subito e lo salutò con un cenno, non troppo gentile ma neanche dispiacevole, alla slava. Capì subito che era lì per le lenzuola della madre di Giacomo. Gli disse che si era ammalata nei mesi scorsi e non aveva avuto più modo di tornare a Trieste, ma che adesso che stava meglio a breve sarebbe tornata a ridare il tutto, anche perché aveva bisogno del lavoro delle famiglie triestine e non poteva perdere clienti così. Lo pregò di entrare in casa e attenderla dieci minuti, sarebbe andata al magazzino a recuperare il bucato che era pronto, gli avrebbe fatto un fagotto così poteva trasportarlo comodamente in bicicletta. Mentre Darja s’avviava le figlie lo accolsero e gli prepararono un tazza di caffè, avranno avuto non più di sedici anni e una di loro stava suonando divinamente il violino. Si accomodò in una poltrona nel giardino, vicino alla legna accatastata e pronta per ardere, ammirando la giovane che deliziava le corde del suo strumento e amplificava la poesia di quel momento.
Il bagno La Lanterna
Passeggiando sulle rive della città, oltrepassando il molo principe oltre Piazza dell’Unità, si arriva in una zona del porto su cui sembrano calare i riflettori dello splendore del centro. Alcuni edifici cominciano a mostrare crepe e decadenza, i rumori del centro sembrano affievolirsi per lasciare spazio alle onde del mare e al batter d’ali dei volatili. E’ qui che si trova una delle istituzioni storiche della città: Il Bagno La Lanterna, conosciuto anche con il nome de “El pedocin”. Ha più di cento anni e rimarca ancora lo stile di un’eleganza perduta. Al primo impatto mi ha ricordato l’ambientazione di “Morte a Venezia” di Luchino Visconti de l’Hotel des Bains al Lido di Venezia. Ma è solo un rimando cinematografico della mia mente. Famoso per mantenere ancora la separazione tra uomini e donne, è un luogo di pace e serenità interiore, almeno in questa stagione. La spiaggia di ciottoli rende ogni passo troppo rumoroso, ma l’architettura simmetrica, quasi maniacale, le dà un tono di sicurezza, come fossimo all’interno delle mura di una città medievale. Mi siedo su una panchina a osservare il mare che è una tavola d’olio. Assorbo le sue sensazioni, scruto lontano. Ogni ora che passa in questa città sento lo spirito che rivendica la sua superiorità sulla materia, sento la rivelazione ribollire contro la ragione del progresso, sento l’anima che si eleva a divinità. Scrivo una poesia:
Qui seduto al bagno La Lanterna,
ammiro il mare piatto,
qualche cenno di suon d’uccelli.
La chiara foschia triestina è amica dello spirito,
dell’introspezione,
della leggerezza.
La linea dell’orizzonte è lontana,
la pace è un’idea che gravita tutt’intorno,
la vita può essere ciò che siamo.
L’altra Trieste
Lo splendore di una città, in cui la parola incanto è sinonimo di vita quotidiana, ad un certo punto nello spazio urbano si scontra con un’immensa astronave di cemento, che sembra essere stata posizionata lì direttamente dagli alieni. In realtà non penso che negli altri pianeti, se davvero ci fosse vita, possano mai riuscire solo a immaginare quello che abbiamo fatto in Italia nel secondo dopoguerra con la speculazione edilizia e la distruzione dell’ambiente. Anche la splendida Trieste non è stata esentata da questo fenomeno, che ha reso il nostro paese una preda unica per gli speculatori edilizi che, camuffati dalla bonaria idea del progresso, hanno iniettato nell’ecosistema una quantità di cemento tale da distruggere ogni idea di natura e bellezza paesaggistica.
A pochi chilometri dalla poesia del centro urbano, che nei secoli si è sviluppato con armonia architettonica, sorge l’immane complesso della Melara. Una sorta di città-cemento, come ve ne sono in molte altre parti del paese, che predomina su una collina ed è visibile praticamente da ovunque. Il suo stile brutalista era, nell’idea egli architetti degli anni settanta, un progetto teso al futuro e all’innovazione. Esteso su novantamila metri quadrati, vi sono circa cinquecento appartamenti e vi vivono duemila e cinquecento persone. Eppure è un’esperienza forte attraversarlo, ha scuole, tabacchini, una posta, giardini con giochi, supermercati, anche un anfiteatro. Ma dagli anni ottanta a oggi è diventato il simbolo dell’abbandono, nonostante sia vissuto da gente comune e non vi siano pericoli di gang o tossicodipendenti come l’aspetto esterno possa incutere, è comunque un luogo che devasta l’anima ed esprime al meglio il senso di onnipotenza dei palazzinara che pensavano di cementificare la vita delle persone negli anni settanta solo perché l’aveva detto Le Courbasier (riguardare a tal proposito “Le mani sulla città” di Francesco Rosi fa sempre bene). Entrandoci si attraversano corridoi immensi con finestroni cerchiati, le macchine e i motorini ci passano in mezzo, ascensori in stile Alcatraz portano a livelli differenti, tutti i muri sono tappezzati da graffiti. Un senso di surreale angoscia assale la prima volta che lo si visita, una claustrofobia mista al panico di perdersi lì dentro e non uscirne mai più. La sensazione comunque è che vi sia molta umanità anche lì, e che i veri barbari siano coloro che abbiamo progettato una città-carcere nella zona più esclusa (e non esclusiva) della città. Mai più!
Sono uno scrittore, in particolare uno scrittore di viaggi. Di architettura ne capisco poco ma l’ho sempre ritenuta parte fondante della mia visione descrittiva. Essendo cresciuto in una città del profondo Sud che ha fatto dell’abusivismo edilizio il suo marchio riconoscitivo, ho sempre cercato di capirne il più possibile, principalmente domandando a chi di architettura vive. Ho chiesto un parere sull’abuso del cemento nel novecento in Italia ad un grande architetto, oltre che caro amico. Si chiama Antonio Pizzolla, da oltre trent’anni architetto di spazi multipli a Roma, questa la sua versione, un po’ lunga ma sicuramente approfondita e chiarificatrice di molti concetti cardine per comprendere la questione:
Nel Dopoguerra l’Italia si trovò dinanzi l’emergenza abitativa. Diverse abitazioni erano andate distrutte e gli alloggi popolari versavano in condizioni di inabitabilità.
Erano altresì già stati inaugurati prima della Guerra una serie di esperimenti di edilizia per il nuovo proletariato urbano generatosi con la Rivoluzione Industriale (vedi caso Olivetti degli anni 50), chiamate “città operaie”, ovvero dei veri e propri quartieri costruiti attorno alla fabbrica, con servizi collettivi e casa dell’imprenditore sul modello delle “città giardino” in uno stile architettonico neoclassico che attingeva dal romanico, dal gotico e da un classicismo di maniera.
Ma furono in realtà solo poche eccezioni di derivazione ottocentesca che con la Guerra si rivelarono sperimenti di utopia sociale.
Lo Stato Italiano rispose nel Dopoguerra con un programma di ricostruzione assegnato agli istituti pubblici tipo INA Casa. L’iniziativa era pubblica.
Furono realizzati i quartieri INA Casa fino agli anni 60, complessi di più edifici dai 4 ai 10 piani attorno a grandi giardini condominiali, di un’edilizia però povera e anonima con tendenze vernacolari (periodo del Neorealismo).
A seguito dell’aumento demografico negli anni 60 si pose un secondo flusso di richiesta abitativa. Come suggellato dalla Legge Ponte del 1967 e della Bucalossi del 1977 si determinò l’intervento massiccio dei privati nella costruzione dell’edilizia agevolata, che concedeva premialità di cubatura e oneri di costruzione ridotti a patto che i prezzi di vendita fossero calmierati.
Questo è il fenomeno dei cd. Palazzinari (periodo del Sacco di Roma, di Palermo, di Napoli e di tutte le città italiane) che lucrarono sui prezzi di vendita realizzando, grazie alle premialità di cubatura che ottenevano con accordi più o meno leciti, metricubi e metricubi di cemento, costruiti rapidamente e spesso senza alcuna attenzione alla qualità e all’immagine. Rapidamente i comuni maturarono (già con la crisi petrolifera del 74), in deficit di oneri di costruzione, debiti ingenti trovandosi nella difficoltà di realizzare servizi comuni pubblici.
Contestualmente lo Stato partecipava alla costruzione del patrimonio immobiliare con le case popolari dell’ICP, poi diventato Iacp (Istituto Autonomo Case Popolari), dalla metà degli anni 60 fino agli 80. In questo periodo il fenomeno era non solo italiano ma europeo.
Dal punto di vista dei modelli a cui fare riferimento si seguirono le teorie razionaliste degli anni 30, come perfezionate dal principale esponente della corrente artistica, Le Courbusier. Questi aveva ricevuto l’incarico di realizzare a Marsiglia la sua prima “Unità di Abitazione” un complesso di alloggi che, secondo le teorie del tempo, dovevano consentire di interlacciare l’esigenza abitativa privata con la civile condivisione dei servizi comuni: il modello avrebbe consentito ai comuni di realizzare i servizi che le casse pubbliche altrimenti non avrebbero permesso.
Le Unità di Abitazione erano piccoli quartieri che limitavano l’uso spasmodico del territorio che le case unifamiliari comportavano e che stavano generando costi collettivi ingenti per la dotazione dei servizi collettivi (strade, trasporti, energia, scuole, parcheggi….), concentrando in un unico volume sia gli alloggi che i servizi (negozi, asili, biblioteche, luoghi di incontro, anfiteatri ecc…).
Il modello Marsiglia e dei primi esempi che seguirono in Europa erano virtuosi per quanto sperimentali. La qualità architettonica era contemplata (furono progetti diretti del maestro Corbu) e la qualità degli spazi, degli standard e delle funzioni puntualmente rispettate.
Con la nuova emergenza abitativa successiva alla Rivoluzione Industriale e quindi al popolamento delle periferie da parte dello strabordante proletariato urbano diversi paesi europei inaugurarono modelli di quartieri intensivi sul modello dell’Unità marsigliese, ma che s’ingigantirono nei volumi e si mortificarono nell’immagine, adottando i caratteri della tendenza artistica del tempo (il Brutalismo, ovvero un’architettura in cui gli elementi costruttivi e tecnologici venivano denunciati nella loro “brutalità”, cemento a vista, tubazioni esterne, inferriate grigie, ecc…).
Il caso Melara a Trieste non fu iniziativa privata (palazzinari) ma pubblica, in quanto come gli altri ecomostri delle grandi metropoli, eseguiti dall’ICP con i fondi Gescal (prelievo alla radice di imposte per la casa). Il problema più grande è che questi complessi, architettonicamente mostruosi, divennero subito ghetti per le classi meno abbienti e, senza una gestione pubblica, furono abbandonati nei servizi e nelle manutenzioni. Cosicché negli anni 90 diversi ecomostri in Nord Europa (Thamesmead dove girarono Arancia Meccanica), furono demoliti, ammettendo il fallimento delle utopie di metà secolo. In Italia sopravvivono a loro stessi e costituiscono ghetti per le sacche di delinquenza straniera e nazionale.
A peggiorare il paesaggio c’è poi un fenomeno tutto italiano dell’abusivismo edilizio, da quando il governo democristiano del 1985 emanò il primo condono edilizio che sanava la pessima edilizia autoprodotta in virtù dell’alibi dell’esigenza abitativa mai soddisfatta.
Un altro duro colpo dei Palazzinari che ci lucrarono spesso in combutta con la delinquenza organizzata. Quel che è certo che l’economia del Dopoguerra fino alla fine del secolo scorso soprattutto in Italia è dipesa in larghissima misura dall’edilizia.
Tutto questo per porre dei distinguo fra “cemento e cemento” ma anche per precisare un fenomeno complesso che trae origini da difficoltà amministrative ed economiche sui quali l’architetto il più delle volte ha limitate responsabilità, muovendosi all’interno di un sistema, leggi e modi operandi decisi dalla politica.
Accademico ed esemplare il Pizzolla che ringrazio di cuore per l’approfondimento.
Luigi Tracanelli (parte V)
Le ragazze sono molto gentili con lui, portano ampie gonne, una maglia coi lacci, una giacca di lana spessa e lunghi capelli legati. Mentre la più grande prepara il caffè, Luigi ammira la delicatezza con cui la più piccola suona il violino. La musica che si propaga per la casa lo fa rilassare, vive con serenità quel momento e, per la prima volta dopo molto tempo, sente che avrebbe voglia di innamorarsi. Gli torna in mente quella fanciulla della scuola che lo faceva imbarazzare al solo incrociare lo sguardo. Era consapevole di avere un carattere troppo taciturno, e la guerra l’aveva fatto chiudere ancor di più nella sua introspezione infinita. Soffiò sul caffè rovente, chiuse gli occhi per un attimo e pensò che la vita poteva prendere anche direzioni gioiose, desiderò ardentemente che quello fosse il momento della conversione, di un nuovo inizio. Quando la ragazza terminò di suonare lo guardò, lui rispose con un sorriso sincero ed un cenno di plauso. I loro occhi si dicevano qualcosa, decise che sarebbe tornato un giorno e l’avrebbe portata con lui a Trieste, ma prima doveva trovare un lavoro.
Era passata più di mezz’ora da quando Darja era andata a recuperare le lenzuola, tardava ma a lui non dispiaceva, anzi. La giovine riprese a suonare, la sorella più grande si sedette vicino a lui ad ammirare e condividere quella gioia. Gli disse che suonava da quando era piccina, era anche stata al conservatorio di Trieste per un periodo, ma l’arrivo dei nazisti avevo reso la città troppo pericolosa per lei e fu costretta a ritornare a casa. Il violino era uno Stradivari vecchio ma di alta lega, glielo aveva regalato l’insegnate del conservatorio commosso dalla sua passione e dalla sua povertà. Guardò fuori per un attimo, il sole era al punto più alto, la campana della chiesa suonò nuovamente, odori di cucina cominciavano a invadergli l’olfatto, era mezzogiorno.
La musicista posò il violino e si unì a loro per bere il caffè. Era imbarazzata ma felice, anche per loro era una giornata diversa dalle altre, avevano un ospite ed uno spettatore che ne apprezzava le gesta. I tre entrarono in maggiore confidenza, Luigi addirittura azzardò a dire che adesso i nazisti non c’erano più e poteva tornare serenamente al conservatorio di Trieste. La sorella più grande si allontanò un attimo, lui e la più piccola si osservarono in silenzio per qualche secondo, lei arrossì un po’, lui stava per accarezzarle i polpastrelli della mano, ma sentì un rumore che lo fece trasalire. Conosceva perfettamente quel suono, erano passi di stivali militari. Si voltò e vide Darja sulla porta insieme a due poliziotti con la divisa iugoslava, lo stava indicando dicendo qualcosa che non riuscì a capire. I due si avvicinarono, lo presero di forza dalle braccia e lo trascinarono via. Provò a divincolarsi da quella morsa ferrea, cominciò a gridare che era comunista, che voleva solo le lenzuola, che aveva con sé la tessera dei partigiani. I soldati gli gridarono di fare silenzio ma lui era una furia, lo portarono sul ciglio della strada, nel mentre arrivava una furgone con la stella rossa della bandiera della Yugo che sventolava sopra. Tremava come neanche in guerra gli era successo. Riuscì a voltarsi un’ultima volta e vide il viso della violinista completamente pietrificato e la sorella più grande che l’abbracciava. Darja invece lo fissava con astio e sguardo arcuato pieno di rabbia e fierezza. Il furgone si fermò, i militari lo presero di forza e lo buttarono dentro.
Di Luigi Tracanelli non si seppe più nulla da allora.
Foibe
Lo ammetto, neanche sapevo bene cosa significasse letteralmente il termine foiba prima di arrivare a Trieste. Sapevo che era una questione su cui i politici marciano tanto e da molto tempo. Avevo letto sull’argomento, ma era sempre legato a rivendicazioni dell’estrema destra, sempre molto vaghe ed estreme. Sono andato a Bassovizza a visitare il monumento, ho indagato maggiormente, mi sono confrontato con locali. C’è un motivo ben preciso per cui la questione non è mai stata affrontata come si deve dai media e dai libri di storia, questo motivo si chiama vergogna. Perché se la nostra è una cultura italiana che va da Agrigento a Trieste, si deve parlare di foibe con chiarezza a tutta la nazione, ammettere le colpe e accettare la storia per quel che è stata. L’offuscamento da parte della sinistra italiana negli ultimi settant’anni sulla questione è tanto grave quanto l’appropriamento da parte dell’estrema destra di un mito di cui non sono per nulla i detentori.
Nelle foibe finirono migliaia di persone, di diverse nazionalità e di differenti credi ideologici. La furia titina, a guerra conclusa, è tuttora oggetto di approfondite discussioni in città. E’ innegabile che fu una rappresaglia di vendetta contro gli immondi rastrellamenti fascisti durante la guerra di migliaia di slavi innocenti, è altrettanto lampante la colpa di tutti questi piccoli paesi di confine con l’ex Iugoslavia i cui sindaci comunisti si identificavano più con Tito che con la Costituzione della Repubblica italiana. Non ho abbastanza conoscenza del fenomeno per emettere un giudizio profondo sulla questione, però mi rimane dentro l’idea del padre di Luigi Tracanelli che per anni ha cercato suo figlio in ogni angolo d’Istria, riesco a immaginare il suo dolore indelebile, la sua colpa di essere sopravvissuto al figlio a cui non ha neanche potuto fare il funerale. Le foibe hanno marchiato a vita questo territorio e la sua popolazione, un giorno diverranno un ricordo sempre più lontano, ma relativizzarle a una questione di partito è una vigliaccheria indegna di un grande paese come l’Italia e un’offesa alla memoria collettiva di un intero popolo e di migliaia di persone che hanno perso i loro familiari nell’impotenza più totale.
Con me porterò sempre l’immagine di Gianfranco Tracanelli, fratello minore di Luigi, che mi narra buona parte delle storie che ho assimilato. Aveva tredici anni quando salutò per l’ultima volta suo fratello che usciva di casa con la bici in spalla. Sono passati più di settant’anni da allora, ma la sua commozione è contagiosa. Vederlo con gli occhi lucidi, mentre tiene in mano una foto del fratello perso e amato, è un momento estremamente emozionante ed uno dei motivi per cui amo scrivere storie e conoscerne la storia.
Partenza
E’ già finita. Sarei rimasto un mese in questa sfera urbana madida di poesia e intelletto. Ho ancora un po’ di tempo prima del rientro, lo utilizzo per abbuffarmi in un ristorante sloveno subito dopo il confine. Prendo dei gustosissimi gnocchi de pan, uno stinco di maiale grande quanto un bambino ed un dolce tipico dal nome soviet prekmurska gibanica che ha la forma di una palazzina di due piani. Il tutto per sedici euro, pago fieramente per due.
Ancora una passeggiata sul lungomare di Barcola che porta al Castello di Miramare, che ho bistrattato ma di cui ammiro la smagliante forma in lontananza. Vado alla stazione, ne ammiro ancora una volta lo stile e l’eleganza. Ho il treno che parte tra dieci minuti, guardo lo spiazzale esterno, quello dove gli slavi facevano mercatino fino a pochi decenni fa, e mi rendo conto di essermi affezionato a questa città più di quanto mi sarei potuto aspettare. Adoro la sua storia e stimo i suoi abitanti. Porto con me un ricordo di gente meravigliosa che mi ha accolto con il cuore in mano e una gran voglia di farmi conoscere la propria città, spiegandomi le sfumature più segrete di un’identità unica al mondo.
Con l’alabarda nel cuore torno umilmente alla mia vita d’ogni giorno.
Ringraziamenti
Un doveroso riconoscimento a chi ha reso possibile questo mio lungo racconto su Trieste:
- La PromoTurismo FVG (Friuli-Venezia Giulia) che mi ha dato fiducia ed ha in buona parte finanziato il progetto.
- Riccardo Cepach, Direttore del Museo di Svevo e Joyce, per la sua onniscenza sulla letteratura e storia triestina.
- In toto la famiglia Tracanelli del B&B Villa Fausta, che non solo mi ha dovuto sopportare per quattro giorni ma mi ha anche messo nelle condizioni di vivere una Trieste autentica e divertente tirando fuori la storia, anche sofferta, dello zio Luigi. Un grande abbraccio ai genitori Sergio e Nicoletta, che mi hanno anche portato a fare sopralluogo ad Osp, e con cui chiacchierare è un piacere della vita. Un ringraziamento anche alla figlia Diletta, che la sera del mio trentaseiesimo compleanno mi ha portato in giro con i suoi amici fino a notte inoltrata.
- Gianluca Marcon, nuovo amico triestino, conosciuto per bar, grande conversatore e cantautore che mi ha fatto conoscere “L’altra Trieste”, m’ha portato a Bassovizza e a mangiare sloveno.
La storia di Luigi Tracanelli è vera, il tragitto che ha percorso per andare ad Osp è vero, che non sia mai tornato a casa da quel giorno è vero, la storia delle lenzuola è vera. Tutto il resto è romanzato.
Dedico questo racconto su Trieste a tutti i parenti delle vittime delle foibe che non hanno una tomba su cui piangere i loro cari.
Roberto Bruccoleri - Marzo 2019