Ricordi di viaggio: Pamplona senza Pamplona
Arrivammo in un rovente pomeriggio estivo. L’asfalto della stazione dei bus fumava. Ci inoltrammo lentamente verso il centro della città. La trovammo completamente vuota, saracinesche abbassate, locali simildeserti in un’atmosfera surreale, e sempre più rovente. Non capivamo il perché di tale situazione, poi arrivammo all’appartamento prenotato dove un’antipaticissima proprietaria ci diede un’accoglienza da denuncia al Ministero del Turismo, ma almeno ci spiegò il perché di quell’ambientazione metafisica della città: era il primo giorno dopo la Fiera de San Firmín, proprio quella in cui i tori infilzano gli americani e di cui scrisse il sommo Hemingway Ernesto in quel capolavoro inarrivabile che è Fiesta, e la gente era stanca di far baldoria e tutti i turisti erano andati via. Col compare di viaggio ci guardammo negli occhi: non sapevamo nemmeno ci fosse la fiera anche se eravamo nei vicini Paesi Baschi da una settimana. Incuranti e attoniti uscimmo, ci saranno stati quaranta gradi ed erano le quattro del pomeriggio.
La città era sempre più rovente e dall’aspetto post qualcosa. I suoi palazzi non ci dicevano nulla, le sue strade non stimolavano l’inoltro ulteriore. Passammo il pomeriggio a bere cañas in bar vuoti che ci incutevano tristezza e depressione catartica. Dell’antica capitale del Regno d’Aragón non avevamo alcun interesse ad approfondirne la genesi e la tradizione. Passammo lunghe ore in un silenzio interrogativo, ogni tanto qualche monosillabo e la richiesta di un’altra caña.
Il sole tramontò, la città divenne sempre più dechirichiana e con le sfumature di un luogo in pieno coprifuoco. Ma si sa che in un locale la barra è un sito di ancoraggio per sperduti e di speranza per i vivi. Così si conobbe un tale, galiziano dalle sembianze ariane, spalle possenti, sguardo arcuato, baffo biondo all’ingiù. Aveva vissuto venti e passa anni negli Stati Uniti e da poco s’era trasferito a Pamplona, questioni d’amore ci disse. Non era un tipo tenero, seppur sembrava una persona leale. Dal primo matrimonio con una donna nera aveva avuto due figlie, ciononostante parlava con un certo astio dei neri ed era accanito contro l’immigrazione clandestina. Aveva lavorato come buttafuori o qualcosa del genere, non ricordo esattamente ma erano lavori di fatica. Ci mostrò la catena che portava alla cinta e ci fece vedere le mosse per strangolare qualcuno in meno di due secondi. Era una persona piacevole e interessante che seguiva il suo bosco. Ci facemmo qualche giro dell’ottimo pacharán, raffinatissimo liquore prugnolo tipico della zona. Nel mentre passavano le ore e continuavamo a bere. Ogni tanto entrava un avventore solitario, guardava in giro e andava via. Era l’una di notte e cominciavamo a essere seriamente alticci. Il nostro nuovo amico, non si sa come, riuscì anche a trovare una canna in quel deserto dei tartari, mentre continuava a raccontarci storie mistiche da cacciatore di pelli dell’Ovest.
Le nostre immunità linguistiche cominciarono ad affievolirsi con l’aumentare dell’alterazione alcolica. Ad un certo punto salutammo e provammo a tornare a casa, ma non trovammo la strada giusta. Nonostante fossimo in un centro piccolissimo dove era impossibile perdersi tipo Disperato Erotico Stomp. Scoprimmo alla fine che eravamo passati almeno cinque volte davanti casa ma non avevamo mai riconosciuto il portone.
L’indomani mattina ci svegliammo e senza dirci una parola capimmo che dovevamo andar via, nonostante avessimo un’altra notte già pagata, da questo luogo insipido e metafisico. Neanche avvisammo quella scorbutica dell’appartamento. Il bus ripartì in direzione dell‘amata di Bilbao e ci lasciammo alle spalle Pamplona, di cui il miglior ricordo sono questi offuscati pensieri che termino adesso di scrivere.