Ritorno a casa: viaggio attraverso l’Italia (post?) pandemica.
È domenica ventitré maggio, attendo questo momento da tre mesi, è il giorno in cui posso tornare a casa. Sono a Padova, ricca ed elegante città del Nord-Est. Saluto i vicini, controllo se ho preso tutto. M’avvio in stazione, devo prendere il treno per Roma, poi dormire in un hotel vicino l’aeroporto e l’indomani mattina volare per la Sicilia. È l’unico modo per tornare a casa in questo preciso momento storico.
La stazione di Padova è spettrale, sono circa le tredici e trenta, il sole di maggio è possente. Qualche immigrato bivacca nei ridossi del Mcdonald che fa angolo, poi il vuoto totale del grande spiazzale intervallato da una camionetta dei carabinieri, una macchina della polizia e tre militari che trovano rifugio all’ombra di un albero. Ho prenotato un treno Italo a inizio maggio, quando si era entrati nella fase due e avevano ripristinato i trasporti. Guardo il grande cartellone elettronico delle partenze, il mio treno non è segnato. Abbasso lo sguardo, a destra e a manca il vuoto cosmico. Tutti gli uffici sono chiusi, non c’è neanche un bar aperto, edicole e librerie serrate, negozi spenti, qualche rara sagoma compra il biglietto alle macchinette, per il resto nessuno a giro, neanche i mendicanti. Il mio treno però non c’è. Controllo le email e i messaggi, forse mi è arrivata una comunicazione che mi è sfuggita, nulla. Vado alla macchinetta Italo e simulo una prenotazione, c’è solo un treno al mattino, quando comprai il biglietto erano tre al giorno, si vede che si sono resi conto che con il distanziamento obbligatorio non ci rientravano con i costi, hanno deciso di annullarlo senza comunicarlo a chi lo aveva acquistato, tanto siamo in crisi covid, chi vuoi che non comprenda. Compro un altro biglietto, con Trenitalia, pagato quasi tre volte più quello di Italo. Con l’azienda di Montezemolo farò i conti nei prossimi giorni, sempre se siamo ancora in uno Stato di Diritto.
La freccia sfreccia, è praticamente vuota. Pochissimi passeggeri distanziati e con la muscherina, alcuni la abbassano al collo, me compreso. Che bello rivedere i colori della natura, il verde imponente, le colline e i torrenti, il tutto scorre con soavità e ridà linfa all’anima che negli ultimi mesi è rimasta in casa sotto bombardamento terroristico dei media. Mi addormento. Quando apro gli occhi siamo fermi a Firenze S.M.N, guardo fuori dal finestrino e non c’è anima viva, né altri treni né persone in attesa alle banchine. Siamo in una delle città più visitate al mondo nel pieno meriggio di una meravigliosa giornata di primavera.
All’arrivo a Roma Termini la polizia controlla i documenti, già a Padova altre forze dell’ordine avevano voluto controllare l’autocertificazione, muoversi liberamente non è più un diritto. La stazione romana riporta in ogni dove simboli che ricordano di tenersi a distanza, adesivi per terra e altoparlanti dalla voce orwelliana ne riecheggiano di continuo il verbo. È tutto transennato, solo militari e qualche invisibile figura. Cerco un modo per andare a Fiumicino, sono le sei di sera, sia il treno Leonardo Express che le centinaia di bus che partono giornalmente da Via Giolitti sono stati soppressi, non ho altra scelta che il taxi. Cinquanta euro.
L’argomento di questi tempi è unico, il covid19 ha egemonizzato qualunque conversazione nella vita. Il tassista è una persona per bene, chiacchieriamo, mi parla della sua quarantena con due figli di cinque e otto anni, è stata molto dura per lui e la moglie, coi piccoli impalati davanti a uno schermo tutto il giorno, il pomeriggio li faceva disegnare e poi una passeggiata semiclandestina al parchetto sotto casa, non più di venti minuti, coi vicini di casa che gli gridavano dal palazzo che era un criminale. È stato due mesi a casa senza lavorare, adesso riesce a uscire col taxi non più di due giorni a settimana, è passato dai circa duemila e settecento euro al mese alle quattrocento attuali, mi dice che ha qualche risparmio da parte per sopravvivere un paio di mesi, poi chiederà aiuto al padre e alla sua pensione, probabilmente si trasferirà da lui per mangiare con i figli. Arrivo in hotel.
Ceno al ristorante dell’albergo. I tavoli sono distanziati ma onestamente, pensavo peggio. Qualche coperto, non tanti, sono tutti gli ospiti che hanno il volo presto al mattino successivo. Mi siedo al tavolo più lontano. Un gruppo di quattro persone parla del virus: dove si trovavano a marzo, i figli sepolti in casa, adesso è la volta del Sud America, e cose così. Sono siciliani, come me, accento costa orientale, mi stanno simpatici. Poi altri tre tavoli con persone da sole, sguardo fisso sullo smartphone, esattamente come ricordavo l’Umanità prima della pandemia. Decido di dissociarmi leggendo lo splendido pamphlet Contro l’automobile del giornalista Andrea Coccia. Un testo eccelso che esplica alla perfezione la nostra sudditanza a una società che ha l’automobile come riferimento sacro, di un mondo costruito sulle loro necessità, di un’industria che ha trasformato l’idea di libertà in un’immagine su quattro ruote. Mentre arriva la carbonara termino il primo capitolo.
L’automobile è sempre. Lo si è sia se l’unità di misura è una giornata, sia se è la tua intera vita. Le quattro ruote ti inseguono dalla culla alla tomba: dalle macchinine che decorano le calzette dei tuoi figli, a quelle con cui giocano per tutta l’infanzia; dai videogiochi con cui crescono, fino al rito di passaggio alla vita adulta, ovvero la patente, da prendere rigorosamente appena maggiorenni. L’auto cresce con te e diventa familiare appena hai dei figli. E poi, dopo averti portato a lavoro per tutta la vita, ti accompagna persino alla tomba, dove a parte per qualche metro sulle spalle degli amici di una vita, è proprio una macchina che ti ci porta.
Mattino presto, aria fresca e tonificante, non ce la faccio a mettere la mascherina, sarebbe come fumare una Marlboro rossa appena svegli senza aver preso neanche il caffè. A Fiumicino poche emozioni, vado dritto al gate. Anche qui tutto chiuso, i sedili con gli adesivi dove potersi sedere e dove no, gli altoparlanti non smettono mai di ricordare il distanziamento come forma necessaria per sopravvivere. La voce ha quel suono metallico che mi rimembra un vecchio film denigrante sulla Corea del Nord dove il regista, per mostrarci il loro livello di disumanità, perseverava sul simbolo degli altoparlanti che al mattino accompagnavano la vita dei cittadini nordcoreani dicendogli di svegliarsi, di fare ginnastica, di andare a lavorare; insomma gli scandivano la vita quotidiana, sembra quasi come adesso da noi, ma qui è solo una cosa temporanea e solo per la salute di tutti, mica siamo a Pyongyang.
Osservo chi in attesa di volare come me: mascherina tutti, guanti pochissimi quasi nessuno, in due noto hanno pure quella sorta di occhiali che coprono tutta la parte davanti gli occhi e rasentano la pelle sui lati, così il virus non può entrare ocularmente. Mi ricordano degli occhiali ultra avvolgenti di Dior che indossavano i discotecari quando andavo a ballare nei primi anni Zero, o forse di più dei saldatori che hanno a che fare quotidianamente con il rischio scintille che li accechi, ma più verosimilmente richiamano alla mente quei devoti religiosi medievali che si flagellavano la schiena, fino al dissanguamento, come penitenza divina. Il Covid come Cristo.
Degli impiegati delle pulizie dell’aeroporto parlano tra loro, sono un uomo e due donne, tutti belli grassocci e in carne. Lui dice loro che la sera prima ha visto in TV assembramenti sia in Sicilia che in una piazza di Roma, agitato comunica alle colleghe che così siamo spacciati e a breve sarà la fine. Le due lo sciolgono a passo svelto e mentre vanno via gli mandano il più dolce dei pensieri romani: che dito ar culo questo qui!
La cosa che più apprezzo di questo distanziamento è il bus che ti porta dalla porta d’imbarco all’aereo, per la prima volta in vita mia si respira, è una sensazione estremamente piacevole. L’aeroplano è imperiale, è uno di quelli che normalmente portano dall’altro lato del mondo, dieci posti a fila. Mi spiega l’assistente di volo che è per ottimizzare i costi visto il ridimensionamento obbligato e la riduzione all’osso dei voli. Un bestione del genere per quaranta minuti di volo Roma-Palermo, non capita tutti i giorni. Mi siedo e crollo. Quando apro gli occhi si vede il mare dal finestrino. L’aereo tocca terra. Patria!
Sul taxi condiviso per andare dall’aeroporto a Palermo città, riparte la solita conversazione covidista. Siamo quattro, ognuno con la propria maschera e ognuno con la propria esperienza, ma tutti siamo d’accordo che, nonostante il virus, l’unica certezza reale è la fame imminente. Il tassista è un ragazzo molto simpatico, meno di trent’anni, mi dice che «in famiglia siamo tutti tassisti da generazioni e con il lavoro che facciamo almeno qualcuno si sarebbe dovuto ammalare, e invece niente, nessuno.» Lasciamo a casa la prima persona. Ci allentiamo le mascherine, fa caldo a Palermo. Ci sentiamo tutti presi per i fondelli, è come se la vita reale fosse distante da quella ufficialmente comunicata. La gente non è stupida, magari preferisce non esprimersi pubblicamente ma la rabbia che emerge è evidente come il sole che sorge al mattino. In Sicilia, coi contagi minimi, la popolazione è stata trattata senza un minimo di dignità, un’economia affossata con la carestia alle porte. Ma siamo un popolo forte e solare, non ci facciamo abbindolare facilmente. Ancora il tassista: «io non conosco nessuno che ha il covid, e neanche tutte le persone che conosco non conoscono a loro volta nessuno che sia stato contagiato, ma stu minchia di virus unnè?». La sensazione è che il popolo sia stato non solo abbandonato ma soprattutto denigrato. Pochi giorni fa un amico, che sta molto bene economicamente per eredità, parlando di questa situazione mi disse che sono i soliti populisti a lamentarsi e che credono a qualunque teoria del complotto. Nel mentre siamo arrivati nel cuore della città, l’aria si fa sempre più accogliente, la Sicilia è la terra di Dio, mette sempre di buon umore. Prima di arrivare alla stazione un’ultima chicca dell’eroe al volante: «mia nonna ha ottant’anni, da quando ci è stato imposto l’isolamento non potevamo più andarla a trovare, ci chiamava piangendo supplicandoci di andare, alle nostre proteste rispondeva: chi minni futtu ca moru, ata a veniri, sinnò moru di solitudine!»
Adesso tocca arrivare a casa mia nel sud della Sicilia. Anche la stazione di Palermo si conferma un fortino militare, tutta transenne e con i percorsi ridotti al minimo. Forze dell’ordine varie e i soliti simboli che continuamente impongono il distanziamento finché non si inietta nel subconscio. Il primo treno o bus per la mia città è dopo cinque ore, normalmente se ne trovava uno ogni ora, ma il nemico impone un ridimensionamento dei trasporti. Ne approfitto per ammaliarmi dell’arte palermitana, provo a visitare l’Oratorio di San Lorenzo con gli stucchi del Serpotta ma è chiuso, ogni cosa che rimandi alla bellezza è inaccessibile, dobbiamo vivere solo di virus, null’altro è tollerato. Torno in stazione un’ora prima del treno, mangio e leggo. Sedendomi su una delle imperiose panchine di marmo della stazione (lunghe più di due metri, larghe uno e dal peso vicino alla tonnellata), noto un cartello scritto al centro: EMERGENZA COVID19, VIETATO UTILIZZARE LE SEDUTE. Insomma bisogna aspettare il treno in piedi, il virus a quanto pare potrebbe traforare i pantaloni e iniettarsi nel deretano.
Parte il treno che da Palermo porta ad Agrigento attraversando le viscere della Sicilia. È un percorso che adoro perché dal finestrino si ammira la magnificenza di questa terra: le sue valli brulle, i pascoli, i contadini al trattore, le stazioni ottocentesche con nomi sublimi come Roccapalumba o Montemaggiore Belsito. Un sedile sì e un sedile libero, la composizione dei vagoni segue quella di una scacchiera. Molti pendolari riposano, io guardo fuori mentre si riaccende la fiamma ancestrale per questa terra, chissà che sia la volta buona che tutti noi emigrati torniamo a vivere a casa nostra. Riflettendoci questa pandemia ha messo in discussione tutto, dalle scelte di fuga basilari alla globalizzazione in senso lato, vedremo con il tempo.
Mentre il treno entra alla stazione di Agrigento abbasso il finestrino e porgo la testa fuori come l’ispettore Rogas in Cadaveri eccellenti , capolavoro del 1976 di Francesco Rosi tratto dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia. Sono arrivato a destinazione, da quando sono partito da Padova sono passate ventisette ore, la mascherina è ridotta a un cencio ed è un agglomerato di qualunque batterio. Dieci minuti dopo sono già a casa, fronte mare africano. Un’altra quarantena mi attende, ma almeno respiro l’aria salubre, il cielo è limpido, gli uccelli cantano e un giardino fiorente mi tiene compagnia.
Maggio 2020