Trekking sul Monte Muculufa: natura, misticismo e pioggia di novembre.

Blasco da Mompracem
11 min readNov 28, 2022

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Arriviamo al mattino con le macchine in carovana, attraverso strade dove la natura ha ripreso possesso dell’asfalto e ne deforma l’aspetto, mentre i navigatori si astengono dall’indicarle. Il tempo brutto dell’ultima settimana ha fatto desistere tanti fedelissimi, ad ogni modo siamo un bel gruppo di una ventina di persone, affiatate di trekking nonostante il plumbeo imperante.

Il Monte Muculufa si trova nella zona di Ravanusa, paese dell’entroterra siculo, distante una cinquantina di chilometri da Agrigento, la nostra base e punto di partenza. Ad accoglierci c’è Gino Nobile, professore di educazione fisica innamorato follemente di queste valli, dove è nato e cresciuto nella dimora di famiglia poco lontana. Sarà lui oggi il nostro Cicerone. Parcheggiamo le macchine e notiamo subito dei pescatori rientrare, dall’adiacente fiume Salso, con sacche piene di anguille ancora vive e vibranti. Non sappiamo se sia una pesca legale, comunque i pescatori non sembrano nascondersi alla nostra vista e, anzi, si pavoneggiano fieramente del loro ricco bottino. Questo fiume, il Salso, un tempo era navigabile ed è stato l’elemento cardine che ha portato le prime colonie ad abitare queste valli, a farne prosperare la comunità e i commerci, già dall’età del ferro e del bronzo. Siamo tra siculi e sicani, forse entrambi.

Fiume Salso

Iniziamo il percorso. Le vette del Monte Muculufa ci attendono in alto, possenti e dominatrici di un cielo grigio ma non ancor piovente. Ci inoltriamo per sentieri curvi e di ciottoli bianchi. È la strada maestra, che porta alle grotte e al santuario, ma non solo. Comincia a piovere, le nuvole diventano sempre più nere, il fruscio degli alberi sempre più vorticoso. I ticchettii dei bastoni dei camminatori fanno da sottofondo alla nostra scalata. Il paesaggio comincia ad aprirsi e, nonostante l’uggiosità, a imporre la sua totalità, il suo essere oltre l’orizzonte e la sua energia, tangibile, di rivitalizzazione spirituale. Dall’altro lato della valle svetta fiera un’altra montagna imperiale, detta anche Serra du spavientu perché è talmente ripida che nei secoli e millenni passati vi sono morte tante persone scivolando da lì con gli animali. Il vento alza il suo tamburo. La visceralità dell’entroterra siculo si fa legione. Trionfa il misticismo.

Siamo qui con ArcheotrekkingTours Agrigento , un progetto dell’associazione PastActivity che organizza percorsi storico e naturalistici in tutto il territorio agrigentino. Ne fanno parte Marco Falzone, storica guida di Agrigento, Andrea Barbera, skipper di lungo corso che nei mesi invernali si dedica anche all’elemento terrestre, e Zelia Di Giuseppe, archeologa affermata in grado di farti appassionare anche al paleolitico come se fosse contemporaneo. Ho già fatto un trekking con loro qualche settimana fa. Meritano fiducia, sono molto precisi e sempre disponibili oltre, ovviamente, a essere professionisti seri e affermati.

In lontananza si vede un vecchio pandino rosso muoversi attraverso i sentieri. Nonostante sia minuscolo rispetto al paesaggio, il suo colore acceso lo evidenzia perché all’interno di un’eterna tela naturalistica di verdi, gialli e marroni, che si amalgamano divinamente tra di loro, come solo la primordialità sa fare. Alcuni ruderi affiorano, non sovente. Poi un’antica fattoria sulla destra, in alto, dove vi sono delle capre belanti e dei cani che abbaiano - è di un idraulico con la passione del pascolo - mi dice Gino. Che personaggio la nostra guida. La sua famiglia ha avuto grandi proprietà terriere nella zona che davano lavoro a più di trenta contadini. Con suo fratello Eugenio, fin da piccoli, salivano sui punti più alti della Muculufa. Questa montagna è stata per loro non solo il luogo dell’anima ma una sorta di altro padre, metafisico e solenne, in grado di rafforzare il loro spirito in ogni momento della vita. Eugenio è deceduto lo scorso anno, a nemmeno sesssant’anni, per una malattia. Tra le sue ultime volontà c’era quella che le sue ceneri fossero disperse all’interno della grotta sita nel punto più alto della montagna. Gino l’ha accontentato, e ogni fine settimana sale fin lassù a portare un mazzo di fiori e rivolgere una preghiera all’amato fratello minore, che cita spesso durante il trekking. Continuiamo a salire, la pioggia aumenta d’intensità. Le foglie degli alberi frusciano d’autunno, l’acqua scende obliqua senza pungere, la valle è piena di piante a ciuffi. Un ragazzo del gruppo, con la kefiah giallo e nera che mi ricorda più i tifosi del Dortmund che la lotta palestinese, coglie cacoccioli ( lumache). Sotto di noi questa Valle magnifica, di una perfezione paradisiaca, che rende le ambizioni artistiche dell’uomo ridicole, perché nulla può eguagliare l’armonia della natura, né la banale ricerca della forma né l’asettico progresso tecnologico. Un leggero rumore ci viene alle spalle, è il pandino rosso che si avvicina. Salutiamo con garbo il suo guidatore, è il famoso idraulico-pastore.

Piove forte mentre arriviamo al complesso minerario. Una struttura di cemento ingiallita dalle intemperie e dall’abbandono. È stata operativa fino ai primi anni Cinquanta del Novecento. Vi lavoravano tremila persone che vivevano nel paese di Ravanusa, dieci chilometri da qui. Ogni giorno all’alba si mettevano a dorso di mulo per raggiungerla, un’ora e mezza di cammino all’andata e altrettanti al ritorno. Questa miniera di zolfo risale alla seconda metà dell’Ottocento e apparteneva a Lucio Tasca, nobile di queste zone, che ai più oggi è famoso per il vino Tasca d’Almerita, uno dei più apprezzati e conosciuti dell’intera Sicilia. Lo zolfo è stato il minerale che ha fatto la fortuna di tutti i popoli che qui hanno dimorato: dai greci fino alla modernità. È stato il nostro oro, il nostro Klondike, e la fonte ispiratrice della narrativa dei più grandi scrittori siciliani, Pirandello e Sciascia in primis. Tergiversiamo in attesa che scampi un po’ la pioggia. Chiacchieriamo tenendo il morale alto, alcuni sembrano pentiti di essersi avventurati per un trekking magnifico sì ma in una giornata dalle condizioni metereologiche funeste. Visitiamo quelli che furono gli uffici amministrativi della miniera, con la mensa e le docce annesse. Poi le porte di pietra da cui discendevano i minatori, prima a piedi e in un secondo momento coi carrelli sui binari, che si inoltravano nelle viscere della terra per estrarre lo zolfo. Ci sono anche i forni, che hanno annerito tutti gli alberi vicini, e alcune costruzioni, oramai ridotte a ruderi col tetto sventrato, che facevano sempre parte del complesso. La pioggia allenta, possiamo proseguire. C’è di nuovo euforia, l’acqua è parte del contesto naturalistico. La montagna l’assorbe trasmettendocene la forza nello spirito e nelle gambe. La salita è fangosa ma la meta sempre più vicina.

Il complesso minerario
Ruderi della miniera
Nei pressi di discendimenti della miniera
Gli alberi anneriti dai forni della miniera

Per quasi mezzora saliamo la montagna a testa bassa con i bastoni ben infilzati nel terreno viscido. La pioggia rende il tutto più arduo ma anche più esaltante. Il trekking è anche questo, vivere la natura in qualunque condizione, come hanno fatto per milioni di anni i nostri antenati prima che la modernità ci fiaccasse il corpo e demoralizzasse la volontà. Per chi non vuole, o non se la sente, ci sono sempre e comunque i musei da poter visitare nelle città. Pieni di vita morta, lugubri nelle loro stanze anguste e, ultimamente, preda di iconoclasti progressisti, sono sempre aperti, soprattutto nelle domeniche grigie e piovose. Poco importa per noi, perché chi fa trekking ricerca il legame ancestrale che unisce l’uomo a Dio che, sovente, si camuffa negli alberi, nei boschi, nelle montagne e nella pioggia. È un Dio spinoziano quello che inconsciamente ricerchiamo quando ci allacciamo lo scarpone da trekking per metterci in marcia. Si amalgama con la vegetazione, si inerpica nella forza che emanano le rocce, si manifesta nei colori del cielo che mutano di continuo. Piove, sempre più forte. L’unico pensiero è andare avanti senza pensarci. Si intravede del grigio, sembra una costruzione arcaica, forse potrà darci conforto. Mi giro, scatto due foto. Le immagini non riescono a rendere con questa luce. Non renderebbero nemmeno con il sole estivo, perché anche il provare a rappresentare visivamente questo luogo è un gesto di banalizzazione, è una cosa da città. Solo lo spirito può immortalarlo. Solo i richiami ancestrali possono manifestarlo.

la salita del Monte Muculufa

Dal taccuino:

Abbiamo fatto la salita, sotto una pioggia trasversale ma tonificante. Siamo in una sorta di rifugio adesso, nel punto più alto della montagna. Vi si erano insediati due monaci francescani, in tempi molto recenti. Due eremiti. C’è ancora una preghiera al muro con la Vergine scolorita e una piccola bacheca, con legni del bosco come cornice, dove appuntavano gli impegni giornalieri. Siamo tutti qui dentro adesso, siamo uniti, è bellissimo. Fuori è tutto plumbeo e ascetismo, come la vita dei due monaci che sono stati qui. A terra vi sono ancora i tappeti che usavano, mentre una rete sradicata da una finestrella laterale sventola nel panorama novembrino della Muculufa.

Ha dell’incredibile la storia dei due eremiti. Quando Gino ce la racconta rimaniamo increduli. Venivano dal Monastero dei francescani di Ravanusa. Uno di loro era del nord Italia, con un passato difficile alle spalle, si dice di abuso di droghe e reati di microcrimanilità. Del secondo sappiamo poco o nulla. Fatto sta che insieme, una decina d’anni fa, decisero di venire in eremitaggio qui. Qualcuno gli portava l’acqua fino al complesso minerario, come si nutrissero non si sa. Probabilmente tornarono alla vita primordiale quando l’uomo era cacciatore-raccoglitore, ma non abbiamo certezze, bisognerebbe indagare e scrivere una storia approfondita su di loro. Trovarono quest’antica costruzione risalente a non so quanti secoli fa. Vi costruirono un tetto per potersi proteggere. Poi, poco distante da questa, v’era un’altra struttura arcaica. La trasformarono nella cappella per pregare. Sempre dal taccuino:

Accanto c’è la cappella dove pregavano. Dentro sgocciola, le travi di legno del tetto scricchiolano sotto il peso dell’acqua. Una finestrella sulla Valle, un crocifisso incastonato in una insenatura della roccia. C’è un inginocchiatoio a forma di sedia, delle panchine di legno grezzo, un candelabro su vecchie tavole. Due sedie di plastica moderne, una bianca e una nera, stonano ma rimangono comunque in armonia. Un leggio è tenuto alla base da un assemblamento di pietre. Si sta bene. Aleggia spiritualità in questa ricerca del Sacro, di riunione tra l’uomo e la natura, che qui diventa Dio.

Riparo nella costruzione eremitica
La cappella degli eremiti

Siamo nel punto più alto della Muculufa. La pioggia è ormai parte non solo dell’ambiente ma anche del nostro corpo. Non la sentiamo più, anche se prosegue imperterrita nella sua funzione. La storia dei monaci eremiti ex tossici rende il racconto della sacralità di questo luogo sempre più interessante. L’espiazione e la rigenerazione. La purificazione e la ricerca spirituale. C’è anche una grotta lì accanto. Vi ci rifugiamo per nutrirci. Andrea accende un fuoco per scaldarci e asciugare, quanto più possibile, i vestiti. È la grotta dove il fratello di Gino ha fatto disperdere le sue ceneri. C’è una lapide che lo ricorda. Zelia ha portato dei fiori per rendergli omaggio. Gino si emoziona ma trattiene le lacrime. Noi ci facciamo una bella foto di gruppo lì davanti, per ricordare questa giornata intensa e piena di emozioni. Il tipo con la kefiah del Borussia Dortmund ha una fiaschetta con una grappa all’alloro fatta in casa, me la porge e gli do due lunghe sorsate che mi scaldano e danno nuova energia a tutto il corpo. È un momento alto, commovente e fortificante. La vita a me piace viverla così.

Nella grotta degli eremiti
Foto di gruppo di fronte la lapide che ricorda Eugenio Nobile, il fratello di Gino, nel suo “luogo dell’anima”
Con la guida Marco Falzone (a sinistra)
Vista dalla grotta

Gino ci porta a vedere altre grotte e antiche tombe risalenti al paleo qualcosa, la cui forma delle finestre incastonate nella roccia rimembra, con strani giochi ottici, gufi e civette. Dietro questa roccia-gufo c’era il dormitorio dei due monaci eremiti. Ancora tangibili i segni della loro presenza: stracci, tappeti, bottiglie di plastica, legni sparsi. È possibile comunque che sia ancora utilizzata, probabilmente da ragazzini che decidono di farci dei ritrovi mistici o baldanzosi, poco importa. Ma la croce di legno all’entrata di questo dormitorio ha una forza espressiva di rara potenza. Richiama il Medioevo, proprio come in un romanzo che racconta delle storie dei mistici della montagna. Poi, in lontananza volgendo lo sguardo verso sinistra, si vede l’antico santuario in decadenza, che s’estende su un orizzonte proteso all’infinito, mentre le rocce intorno a noi rievocano visioni degne di un sogno di Lovecraft. Ma la pioggia adesso è troppo forte, il passaggio per arrivare al santuario con questo tempo diventa pericoloso anche per dei camminatori esperti. Decidiamo di rimandare quest’ultima tappa, un motivo in più per tornare. Ad ogni modo, la sua visione paesaggistica rimane implacabilmente forgiata nei nostri sensi. Nulla può eguagliare la natura, nulla può raggiungere Dio.

Una vista dell’antico Santuario in decadenza
Il gufo
La croce di legno al dormitorio degli eremiti

Rientriamo. La discesa è sempre più pesante della salita, soprattutto quando il terreno è così fangoso. Lentamente, e con gli scarponi messi in posizione orizzontale, riassaporiamo questa immensità di paesaggio, a cui il grigio dona come la luce abbacinante. Tutto viene esaltato dalla natura: i sensi, il corpo, il cuore, il respiro. Camminare rimane l’attività primaria per rimanere vivi e il Monte Muculufa un luogo impregnato di sacralità in ogni pietra, in ogni pianta e in ogni grotta.

L’alchimia della natura trasforma il paesaggio dei boschi in una vivida e quasi omogenea massa di verde e i sensi vengono intossicati da un mare di vegetazione umida, da sottili e indefinibili odori di terra e verzura. In un paesaggio come questo la mente abbandona le coordinate abituali; tempo e spazio diventano secondari, irreali, ed echi di un passato preistorico e dimenticato affiorano con insistenza alla coscienza incantata.

[Howard Phillips Lovecraft - dal racconto “La tomba”]

Roberto Bruccoleri, Agrigento - 27 novembre 2022

Selfie col mio amico Peppe

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Written by Blasco da Mompracem

Un blog dedicato alla scrittura e alla letteratura di viaggio

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