Un viaggio a Napoli tra eternità e degrado.

Blasco da Mompracem
12 min readJul 11, 2024

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Mergellina

Un sereno taxi notturno

Il tassista della notte mi chiede se vuole che applichi la tariffa fissa da “piazza a piazza” rispetto al tassametro. Sostiene che sia più conveniente per me. Nel mentre guardo la città scorrere dal finestrino, con la sua oscurità luminosa. Accetto la proposta mentre chiedo qualche lume sugli edifici e i nomi dei grandi viali che attraversiamo. Si infiamma la sua fierezza identitaria. Mi comincia a narrare dei fasti passati di Napoli, la sua gloria planetaria prima dell’Unità. Città riferimento del mondo, sia nell’arte che nella politica, tanto nei commerci che nella sacralità. Passando di fronte il magniloquente edificio della Federico II, mi racconta di come sia stata la prima Università al mondo a permettere gli studi ai ceti meno abbienti, quando la conoscenza era dedicata solo alle élite baronali. È un fiume in piena, ha compreso che sono un interlocutore affine e interessato. Gli do corda, anche perché non ho mai messo in dubbio la menzogna di Stato che ci viene insegnata a scuola sulla “Liberazione” che ci ha portato il Nord nel 1861. E così si esalta sulle prime ferrovie d’Italia che sono state costruite a Napoli, sull’unica città al mondo ad avere più d’un Palazzo Reale, sulla ricchezza spropositata del Banco di Napoli che fu letteralmente saccheggiata dai Piemontesi. «E gli dedichiamo pure le piazze a quest’infame» mi dice allargando il braccio verso la statua del nizzardo poco gradito. È sempre lui il bersaglio preferito, l’eroe del loro mondo, non certo del nostro. Il “Che” dell’Ottocento qualcuno l’ha ribattezzato, enfatizzandolo a icona di liberazione, quando non è stato altro che un mercenario al soldo dei massoni inglesi. «È iniziata con lui la nostra fine, la nostra povertà, il nostro ciclo che ci ha portato a essere la periferia che siamo oggi. Maledetto Garibaldi con tutti i Savoia, che le fiamme dell’inferno possano ardere in eterno intorno a te». Così sentenzia mentre sono arrivato a destinazione. Ma il glorioso Cicerone involontario continua a intrattenermi per un’altra ventina di minuti, ha una passione dirompente e una conoscenza profonda della sua città. Ho fatto bene ad accettare la tariffa fissa da “piazza a piazza”, col tassametro mi sarei rovinato.

Cos’è il turismo?

L’ultima volta che ero stato a Napoli era il 2014. Venni per Pasqua, altissima stagione. Pagai settanta euro a notte un appartamento con due camere e un attiguo giardino fiorente con una vista paradisiaca sulla città e il golfo. Dieci anni dopo con la stessa tariffa posso permettermi solo uno squallido hotel nei pressi della stazione, con le lenzuola piene di cimici e una colazione vomitevole che rifiuto ogni mattina. Le cose sono cambiate e di molto in un paio di lustri. Napoli è diventata una città ossessionata dal turismo come Firenze o Venezia. Un fenomeno, tal turismo, teso a snaturare i luoghi ed annientarli nella sua essenza comunitaria e millenaria. E riecheggiano sempre le parole del sociologo Rodolphe Christin che — nel suo epico “Turismo di massa e usura del mondo” — scrive che il turismo è mondofago, ovvero uccide ciò che lo fa vivere, distrugge il mondo che dice di amare. Una delle dimostrazioni più evidenti di questa conversione è la banalità in cui si sono trasformati i Quartieri Spagnoli. Non più i “bassi” descritti da Curzio Malaparte ne “La Pelle”, con annessa la sua degradante poesia, ma un’accozzaglia di ristoranti che si ripetono all’infinito che hanno occupato tutte le strade e i vicoli lasciando a malapena meno di un metro per far passare i pedoni. Ormai abitati solamente da turisti nei loro asettici airbnb, quando li giri non si sente più il vociare dei bambini e né le urla dei venditori ambulanti. È tutto un pizza e spritz che si ripete a profusione, senza una fine se non quella dell’ingozzamento inteso come unica forma di intrattenimento. Mi rifiuto di andare a vedere il murales di Maradona così tanto fotografato e condiviso sui social negli ultimi anni. La sacralità del Pibe de oro e la sua immensa aura di solennità, ridotte alla volgarità di un selfie. Ma tutto ciò è nulla in confronto a ciò a cui ho assistito entrando nella splendida Chiesa del Gesù Nuovo durante la messa della domenica mattina: un Tempio di una magnificenza indescrivibile, con statue e affreschi di un idilliaco trascendente. Una torma senza fine di turisti vi entra e scatta foto dimenticando il segno della croce e spesso anche il cappello in testa. Una forma di maleducazione e irrispettosità ormai assimilata nel metabolismo della supposta superiorità occidentale dei costumi. Nel mentre i fedeli che assistono alla messa domenicale, in una delle più maestose chiese di Napoli, non saranno più di una ventina. Non un turista che provi ad ascoltare il sermone del prete, neanche per cinque minuti. Contano solo i Likes, la condivisone e le visualizzazioni. Dio è morto, ha vinto Instagram.

Chiesa del Gesù Nuovo

Sempre e solo sulle orme di…

Nei pochi giorni che passo a Napoli la temperatura di rado scende sotto i trentacinque gradi. Durante il dì erro e bevo tanta acqua. Ho un cappello a visiera ormai madido, mentre il sudore della schiena trafora la sacca di tela che ho sulle spalle e bagna buona parte del Viaggio in Italia di Guido Piovene, l’unica vera Lonely Planet che concepisco per scoprire il mio Paese. Scritta tra il 1955 e il 1958 dal grande autore veneto, la prediligo al comunque epico e omonimo libro del Goethe, più che altro perché descrive l’Italia in tempi a me più vicini ed è stilata nella mia lingua madre. Il capitolo su Napoli è lungo una cinquantina di pagine ed è un dolcissimo affresco della città del dopoguerra, col cemento che comincia a imporsi come elemento architettonico e alcune descrizioni di una soavità commovente in quella Napoli che lui chiama un argomento senza fine. Provo a scovare alcuni dei luoghi urbani di cui scrive, che effettivamente sono senza turisti anche al giorno d’oggi: così scopro il chiostro del Monastero di San Gregorio Armeno che mi godo nel suo splendore praticamente in solitudine. Non riesco però ad accedere alla casa di Benedetto Croce perché in fase di restauro, e il custode non demorde alle mie preghiere di farmi vedere almeno la sua biblioteca, anche da lontano. Ma di sicuro il racconto di Guido Piovene mi ha fatto percepire un po’ più profondamente l’anima di questo universo mistico chiamato Napoli. A lui, e agl’altri scrittori che mi hanno fatto innamorare di questo luogo sfogliandone le pagine (il già citato Curzio Malaparte con “La pelle”, ma anche Enzo Striano e il suo capolavoro “Il resto di niente”, come il folgorante “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo), sarò grato in eterno perché mi permetteranno sempre di essere un esploratore e non un consumatore geografico.

Il chiostro del Monastero di San Gregorio Armeno

Napoli crudele

Napoli è una città violenta. Ma di una violenza psichica e non più fisica. Te ne accorgi nelle notti baldanzose a Piazza Bellini e nei vicoli limitrofi. In una calca opprimente di gioventù dedita alla disgregazione, le macchine ti passano accanto lambendo le suole delle scarpe, mentre tre ragazze senza casco su uno scooter fanno gli slalom tra la gente. Adolescenti in modalità paranza, tutti vestiti di nero, collane e capello alla Geolier, si fanno largo imbruttendo tal e talaltro. Ma sono i tatuaggi l’emblema di questa veemenza dirompente: mai ho visto così tanta gente tatuata nella mia vita: braccia intere che non lasciano più uno spiraglio di pelle, colli e caviglie e gomiti ormai ridotti a ricordi infantili di limpidezza. Tatuaggi spesso orripilanti, tesi all’orrido, come quelli dei calciatori. Si tatuano tutti, non solo a Napoli per carità, ma qui c’è una percentuale che non può passare inosservata, e qualcosa dovrà pur significare. Forse è la necessità di dimostrare una trasgressione effimera, perché ormai è la cosa più conformista che si possa fare. E ammetto pure che a me piacciono certi tatuaggi, sugli altri corpi intendiamoci, ma a Napoli diventano un simbolo di arroganza e facinorosità, come se più tatuaggi hai più rispettato diventi.

E poi il crack, la vera piaga sociale di questo tempo. Avevo letto di recente che in Italia se ne stava diffondendo molto l’uso, come nell’America degli anni Ottanta. E in zona Stazione Centrale vedi scene che si marcano in maniera indelebile nella mente: gente sdraiata sul marciapiede in pieno giorno con gli occhi rivoltati d’un bianco inamidato, altri che muovono la testa all’ingresso della metropolitana in un moto tremolante e perpetuo. Ma quello che mi ha ipnotizzato di più è stato un ragazzo, italianissimo, che non poteva avere più di vent’anni: stava all’impiedi e cercava di camminare, ma non ci riusciva. Oscillava col corpo ma le gambe non gli si muovevano, apriva e chiudeva gli occhi mentre teneva in mano una bottiglia d’acqua vuota. L’ho fissato per più di cinque minuti, tanto non si rendeva conto di nulla. Ho provato pietà per lui, mi chiedevo quanto tempo potesse durare quest’effetto. Era uno zombie, un incartato, un perduto. Che la sua anima si possa redimere e che possa trovare salvezza in questa società marcia e crudele.

Piazza Dante

Liberati dal male, ma non dal mare

Una lunga passeggiata sul lungomare di Napoli rigenera sempre anche quando c’è un’afa soffocante. Dopo notti beverecce il salnitro del golfo inebria e dà nuova linfa ai sensi. È proprio vero che non esistono persone tristi al mare, e se lo sono è il luogo giusto per rinvigorire lo spirito. Napoli e il mare sono sinonimi, l’una è l’essenza dell’altro e la città non è concepibile senza il suo disegno divino intorno che la bagna mentre la indora. Se inconsciamente dobbiamo associare un colore a Napoli quello non può che essere l’azzurro, mentre il Vesuvio sullo sfondo la fa diventare la quinta scenica idilliaca di un’estasi visuale con pochi pari al mondo. Mi soffermo sul lungomare di Mergellina a guardare i bagnanti, luogo tanto amato dai napoletani che lo hanno eletto a qualcosa di simile a un simbolo identitario. Non è sicuramente la spiaggia dei miei sogni, anche perché sabbia non ve n’è e son tutti scogli. Ma mi piace ammirare come i locali lo vivano: dei ragazzi grassi fanno i tuffi tentando le capriole ma battono sempre di schiena e si esaltano dallo schiamazzo che generano. Scendo, m’avvicino all’acqua. Lo spettacolo non è che sia proprio il massimo dell’eleganza: anziani seduti sulle sedie di plastica mentre certi uccellacci gli passano intorno, i bidoni della spazzatura trasbordanti di rifiuti che si riversano per terra. C’è una sorta di spianata di cemento, e lì qualcuno addirittura stende il telo per prendere il sole. Tra gli scogli si insinuano bottiglie e cartaccia di patatine. Qualche barchetta molto datata fa fare un giro a certuni, un tale con un rosario ondulato tatuato sul petto si atteggia a leader con tanto di pugni appoggiati sui fianchi. Ma c’è comunque armonia, senso di gioco e piacevolezza tutt’intorno. Due belle ragazze sono stese a prender il sole e chiacchierare su due scogli attigui. Vari omini napoletani vi gravitano intorno per farsi notare: chi col fisico ben scolpito chi coll’abbronzatura ambrata chi con qualche osservazione scandita volontariamente a voce alta. Torno su. C’è un chioschetto che elargisce viveri e vivande: un bambino grasso inghiotte un panino quasi per intero, una coppia di giovini ordina una Tennents ghiacciata per lui e una Corona per la Signora. Si sbaciucchiano mentre si dissetano, hanno l’aria proprio di essersi conosciuti la sera prima e che in quel momento stanno scoprendo il nome reciproco. Lui completamente tatuato con canotta, cappellino e scarponi slacciati, lei un po’ in carne tutta docile comunque fiera della sua conquista. Anche loro diventano, comunque, un’immagine soave con quello sfondo d’infinito maresco che tende a fondersi al cielo, alla città e al vulcano. È come se diventassero anch’essi Napoli, anch’essi mare, anch’essi Vesuvio. Proseguo il passeggio, giungo fino a Chiaia e le palizzate sullo sfondo danno un’ulteriore apparizione paesaggistica, come se ogni scorcio di questa città fosse una rivelazione continua dello stupore.

Lungomare di Napoli

Napoli Littoria

Funzionale, affabile ed elegante. L’architettura del ventennio fascista è una delle massime espressioni della scienza delle costruzioni del Novecento in Italia. Forse — dicono certuni — anche l’ultimo movimento architettonico che ha ricercato un significato estetico, mistico e sociale nel suo linguaggio. Non piace quest’idea, lo so che non si può e non si deve parlare bene di nulla di quell’epoca, ma a me quegli edifici incutono un fascino misterioso, sarà per la loro possenza, sarà per la loro ricerca di equilibrio tra modernità e tradizione, di certo l’architettura razionalista merita di essere approfondita e non può sempre essere relegata al male assoluto. Imbarazza sovente e viene circoscritta alla banalizzante formula del “era solo propaganda”. Probabile, anche perché ha rappresentato la massima espressione dello Stato Assoluto che si sostituisce alla Chiesa, e lo dimostra principalmente nelle sue architetture statali come il clero ha fatto per millenni con le sue cattedrali. E Napoli non fa eccezione: edifici come la Camera di Commercio, il palazzo della Guardia di Finanza, la Casa del Mutilato, la Questura e la Posta Centrale, sono ancora oggi funzionali ed efficienti come cent’anni fa. Le loro costruzioni non sgretolano, i loro marmi pervadono, la loro aura si continua a imporre nell’urbanistica partenopea come il susseguirsi di una visione tesa alla divina armonia tra arti e spirito. Osservarle dà ipnosi, studiarle dà consapevolezza. E se si vuole avere ancora maggiore contezza del suo valore, basta fare un paragone con l’architettura del secondo Novecento, quando si permise a chiunque di fare tutto ciò che avesse voluto col cemento armato, permettendo così lo smantellamento di intere città, nazioni e continenti per poterle consegnare agli speculatori immobiliari. Non è un caso che il capolavoro cinematografico su questo fenomeno — Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) — sia stato girato proprio a Napoli e mettesse in evidenza gli stretti rapporti di corruzione tra la politica locale e i nuovi imprenditori del cemento. Penso che adesso, a distanza di ottant’anni dalla sepoltura del fascismo in Italia, possiamo dirlo serenamente senza timore di passare per nostalgici: il Razionalismo è stato il Barocco del Novecento, dopo d’esso solamente estetica dell’orrido, arricchimento individuale e città riprodotte in serie come carceri asettici che si estendono all’infinito.

La casa del Mutilato di Napoli

Il metabolismo imperiale

Piazza Plebiscito dà le vertigini per quanto il suo raggio sia ampio ed esteso. Ha la forma della magia e il viandante è invogliato a circumnavigarla col naso all’insù e lo stupore come guida. Aguzzando la vista oltre le colonne si intravedono coperte e cartoni, i senzatetto si nascondono dall’orda turistica, provano a essere invisibili ma i sentori della loro disperazione non possono lasciare indifferenti. Invece la Via Toledo è ormai un via vai perenne di rumori senz’armonia, di negozi standardizzati e di flussi anonimi. Così come la magnifica galleria Umberto I, capolavoro aulico borbonico di tardo Ottocento, che ormai ha l’atmosfera più di un centro commerciale che di un luogo di cui andare orgogliosi. Il turismo d’assalto sta trasformando questi luoghi iconici, simboli secolari della potenza di Napoli nel mondo, nell’ennesimo parco giochi per turisti annoiati dediti solo a mangiare e farsi spennare. E la loro ingordigia incoscientemente fa alzare i prezzi, perché ormai per sedersi a mangiare una pizza margherita e una bottiglietta d’acqua ci vogliono quindici euro.

Certo che girando la città da soli s’ha una percezione differente rispetto ad attraversala accanto a qualcuno che la vive. E così che casualmente incontro una persona che conosco e che qui fa dimora da un po’, e mi porta a prendere un caffè nel giardino dello splendido Palazzo Venezia su Spaccanapoli. Un luogo d’una bellezza estasiante, con i cinguettii degli uccelli ad arpeggiare sulle conversazioni, mentre la varietà botanica rinfresca un pomeriggio domenicale di calura soffocante. E Napoli si sfila un’altra patina dal suo viso e torna essere epicentro di scambi e visioni. Che città immaginifica, che non si può spiegare con il mero uso della ragione, e non si può comprendere se non la si studia, almeno un minimo. Oggi Napoli vive un precario equilibrio tra una globalizzazione eccessiva, che ha portato un turismo invasivo insieme al fenomeno della fuga delle migliori menti verso mondi più allettanti, e una fierezza patriottica che vuol rinvigorire il prestigio della propria Storia. Ed è attraversando le munifiche scale e sale del Palazzo Reale che — una volta di più — ci si rende conto dell’immensa centralità di questa città come faro del mondo. Puoi andare o restare, ognuno agisca come meglio creda. Però dobbiamo ricordarlo sempre: restare è sempre più difficile che andare, e radicarsi è un gesto molto più rivoluzionario che l’erranza ad oltranza che porta, alla lunga, alla dissoluzione delle radici. Con tutti i problemi economici e sociali che può avere questa città, rimane sempre Napoli con la sua Storia, il suo macrocosmo e la sua solennità eterna. Perché, come diceva il grande James Senese: Io song’ nato ccà, e ccà voglio restà, chi se ne fotte ‘e ll’America, l’America sta ccà sta dint’ a chistu core, e dint’ a stu sassofono!…

Luglio 2024

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Written by Blasco da Mompracem

Un blog dedicato alla scrittura e alla letteratura di viaggio

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