Verso l’Arabia Felix - (Racconto breve)
Me ne parlò un giorno un mercante saraceno. Era di passaggio e si fermò alla mia locanda, col suo cavallo stanco e carico di bagagli. Era un uomo dall’ampia mandibola, con una cicatrice sotto l’occhio destro ed una veste blu celestiale che illuminava la sua pelle nera. Aveva lo sguardo esperto di chi conosce il pericolo quotidiano dell’errare, ma anche gli occhi gioiosi di chi riconosce un saggio interlocutore. Gli piacque il pesce che cucinai, esaltò il vino. Dopo cena si distese sulla terrazza ad ascoltare il mare, un caldo vento africano rinvigoriva i pensieri. Da una bisaccia tirò fuori una bottiglia di liquore. Mi invitò a bere, disse che in quel momento si sentiva dentro il tempo che scorreva, il dolce ricordo delle sue terre, il malinconico passato. Mi narrò del villaggio ove nacque, dell’educazione religiosa, del suo amore per i popoli. Veniva da lontano, dove l’Islam ha fondato le sue basi ed il sole è in perenne in picchiata. Mi disse che vicino al suo paese ve n’era un altro molto gradevole, dove la gente sorrideva sempre, non esistevano malattie e si viveva di canti. Lui v’era stato solo poco tempo molti anni prima, ma quelle sensazioni di benessere gli erano rimaste dentro in maniera indomita. Quel posto si chiamava Arabia Felix, e mi confidò che lì sarebbe andato a passare la pensione ad attendere il grande giorno.
Quel raccontò mi cambiò nel profondo. Cominciai ad informarmi nelle biblioteche del Regno. Trovai diverse genti che mi diedero informazioni. Passarono due anni, non avevo racimolato molto, si sapeva poco su questo luogo dell’eterna felicità, però ognuno aveva una storia tramandata da generazioni. Non c’è uomo d’Islam che non conosca almeno una leggenda sull’Arabia Felix.
Il 2 marzo del 1784 partii. Approfittai di un mercantile diretto sulle coste egiziane, da lì avrei potuto continuare il viaggio alla ricerca della terra della felicità. Arrivai ad Alessandria d’Egitto, avevo in tasca una vecchia mappa tracciata da un esploratore danese anni prima. L’avevo ricopiata con precisione alla Biblioteca del Mare. Nella borsa pochi vestiti, un libro di Erodoto e la Bibbia. Arrivai alle porte del deserto, m’accodai ad una carovana in partenza, un’infinità di cammelli e persone toccava l’orizzonte e spariva solo dopo l’ultima duna visibile. Il saio mi teneva fresco, il turbante proteggeva il mio capo. Conobbi molte persone lungo il cammino. I loro visi emaciati dalla violenza del sole e loro bocche sdentante non erano d’intralcio al loro buon umore, alla loro cordialità. Lì incontrai Alì, che m’illuminò la via. Era uno studioso di Aden, nel sud dello Yemen, ed aveva viaggiato per due anni tra i paesi dell’Islam africano. Adesso rientrava. Era lì l’Arabia Felix mi disse, era lo Yemen, e lui avrebbe potuto portarmici, a costo che gli leggessi e spiegassi dei passi della Bibbia. Incredulo di gioia accettai.
Da Suez ci imbarcammo su un vascello che scese verso sud. Affacciato sul ponte mi inebriavo dell’aria del Mar Rosso, guardavo la mappa sempre più sgualcita che il deserto aveva ingiallito ulteriormente. Alì era un uomo vero. Applicava ogni sua capacità al tempo, alla conversazione, alla lettura, all’introspezione, all’amicizia. Arrivammo nello Yemen, scesi al porto di Al-Ḥudayda, lui avrebbe proseguito fino alla sua destinazione. Mi disse di andare a dorso d’asino fino alla capitale, ci avrei messo non più di quattro giorni secondo i suoi calcoli. Mi abbracciò e mi regalò dei versi del Corano scritti su una antica pergamena egizia. Mentre andava si voltò ancora una volta e mi disse: l’unica Arabia Felix possibile è dentro di noi!
M’avviai verso Sana’a.