Viaggio letterario a Dresda sulle orme di Mattatoio n.5
Alla ricerca dell’anima della “Firenze sull’Elba” seguendo le pagine del capolavoro di Kurt Vonnegut, che ne narrò la distruzione del bombardamento del 1945 che la rase al suolo e per cui i carnefici sono tuttora ricordati come eroi.
Testo e fotografie di Roberto Bruccoleri
L’arrivo
Dall’oblò dell’aereo si espande un paesaggio rigoglioso di un verde salutare di piena primavera. Man mano che s’avvicina terra la natura è più lampante, le case in armonia con il territorio, s’alterna pacificamente la relazione uomo-costruzione. L’aeroporto di Dresda, nonostante non sia trafficatissimo, ha un’ architettura possente ed ultramoderna, da aeroporto di capitale o di grande scalo intercontinentale. La città non dista molto, ci si arriva in venti minuti in macchina, attraverso viali di betulle e il solito modesto, quasi assente, traffico tedesco.
Mentre arrivo all’albergo che mi darà ospitalità, sento lo sguardo addosso di alcune statue nere come il carbone poste sulle guglie delle chiese, il loro seguirmi è un misto tra protettivo e minaccioso. Da dietro la porta della hall provo a sbirciare in alto lì fuori, per capire se quegli occhi son sempre lì a scrutare le mie movenze da visitatore. La scovo, è ancora lì, fa dei segni alle altre statue facendo dei cenni in mia direzione. Provo a fissarla di ricambio, deve sentire il mio sguardo di sfida, non saranno delle statue annerite a fermare il mio obiettivo.
Sul viaggiare e leggere
Da quando ho cominciato a viaggiare seguendo le orme dei libri, ho riscoperto l’anima più profonda delle città, dei popoli e delle Nazioni. Molti romanzi riescono a svelare le sfumature locali, sociali e politiche, che le guide turistiche cartacee, create volutamente per omologare i viaggiatori, tendono a oscurare, o a malapena ad accennare nell’ultima pagina, come se fossero le previsioni meteo in un quotidiano. Le guide ufficiali, lonely planet&co., temono che il lettore autonomo possa sfuggirgli, possa scoprire degli itinerari fuori dalle rotte da loro imposte, che possa crearsi una vacanza in maniera autonoma ed alla ricerca dell’essenza di un luogo, che non troverà mai nei ristoranti coi menù in quattro lingue o nei siti “markati” dalle guide come assolutamente da vedere, che altro non sono degli agglomerati di turisti che guardano altri turisti. Il turismo vuole rendere il visitatore amorfo, incapace di autonoma curiosità, privo di stupore e senso critico. Il turismo di oggi banalizza la conoscenza dei luoghi, riducendoli a selfie e a bandierine da mettere nelle mappe del globo. L’uomo non conosce viaggiando, l’uomo conosce leggendo. E viaggiare leggendo è l’ultima àncora di salvezza per apprezzare questo pianeta, e i meravigliosi popoli che lo vivono, con le proprie tradizioni, le proprie identità, i propri solchi del destino.
Come dei passi di giganti
La Germania è un paese che ho sempre rispettato per la storia della sua filosofia, per il suo senso di dignità civile, per il profondo rispetto dell’ambiente. Più di quindici anni fa lessi per la prima volta Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut, capolavoro indiscusso della letteratura americana, che descrive la follia della guerra facendo rivivere al lettore il bombardamento di Dresda, del febbraio del 1945, da parte degli alleati su una popolazione ormai inerme a pochi mesi dalla resa. A scuola abbiamo tutti studiato Hiroshima e Nagasaki, ma nessuno ci ha mai parlato di ciò che avvenne, anzi si abbatté, quella notte dei demoni sulla città più bella e ricca di storia della Germania, tanto da essere chiamata “La Firenze dell’Elba” per via del numero di opere d’arte e patrimonio architettonico.
Al bombardiere guida alleato a cui era stato affidato il delicato compito di individuare con precisione gli obiettivi da colpire venne detto che lo scopo della missione era interrompere la ferrovia e altre importanti linee di comunicazione che passavano attraverso Dresda, ma nel settore indicato i piloti non trovarono nessuna delle 18 stazioni ferroviarie che avrebbero dovuto distruggere, perché il vero scopo era radere al suolo le abitazioni per abbattere il morale della popolazione tedesca e mostrare «i muscoli» ai sovietici con cui erano già in trattativa per la spartizione dell’Europa. L’infernale pioggia di bombe incendiarie surriscaldò l’aria e creò fortissimi vortici in grado di risucchiare dentro il fuoco la folla di persone in fuga. Nonostante la città fosse stata trasformata in un immenso e spaventoso falò visibile da 320 km di distanza, non fu colpito nessuno dei pochi obiettivi militari esistenti, come il vicino aeroporto (con molti apparecchi della Luftwaffe a terra) o il ponte ferroviario di Marienbrücke sull’Elba.
Marco Pizzuti — “Biografia non autorizzata della seconda guerra mondiale”, Mondadori, 2018
Quella notte il fuoco “amico” rase al suolo una città di una bellezza incommensurabile e ammazzò più di duecentomila persone. Kurt Vonnegut era un soldato americano imprigionato dai tedeschi, che fu portato a scontare la sua pena nell’immenso mattatoio della città Dresda il quale, a seguito delle esigenze belliche, fu trasformato in parte in prigione di guerra. Lo scrittore si riuscì a salvare nascondendosi nella cella frigorifera del mattatoio che fungeva da bunker, con duemila gradi fuori sarebbe stato praticamente impossibile trovare salvezza in altri luoghi. Solamente nel 1969, ovvero quasi venticinque anni dopo una delle notti più buie della storia dell’umanità, si mise davanti alla macchina da scrivere per lasciarci una testimonianza di rara forza descrittiva e denunciare, ancora una volta, che la crudeltà umana non conosce limiti.
Lui era giù nel deposito della carne, la notte che Dresda venne distrutta. Sopra si sentivano come dei passi di giganti. Erano grappoli di bombe ad alto potenziale che cadevano. I giganti non la smettevano più di camminare. Il deposito della carne era un rifugio sicurissimo. Là sotto cadeva solo, di tanto in tanto, una pioggia di polvere d’intonaco. C’erano gli americani, quattro delle loro guardie, alcune carcasse di animali e nessun altro. Le altre guardie, prima che cominciasse il bombardamento, erano tornate al calduccio delle loro case a Dresda.
Kurt Vonnegut — “Mattatoio n.5”, Feltrinelli 2018
A distanza di più di settanta anni da quella notte, la città porta ancora le stigmate, probabilmente irremovibili dalla sua anima. Dopo la guerra Dresda andò sotto il controllo della DDR nell’orbita di Mosca. Si ricostruirono alcune parti della città ma la linea generale indicata da Walter Ulbricht, primo Presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, era che tutto il passato aveva portato a Hitler e la distruzione della storia era un passo necessario per il raggiungimento di una perfetta società comunista. Le rovine furono smistate, creando un’area di macerie lunga circa sei chilometri fuori dal centro urbano, ma la città non fu ricostruita. Inoltre, secondo Ulbricht, v’erano troppe Chiese crollate e la loro ricostruzione non era in linea con l’ateismo di Stato. Fu solamente con Honecker negli settanta che si cambiò approccio con la ricostruzione, mutò la volontà politica, la quale ammise che un paese senza storia non può avere una propria identità, e si iniziò lentamente a rimettere in piedi la città, ma ciò richiedeva degli sforzi economici che la DDR non poteva sostenere. Si arrancò fino al 1989 quando, dopo la caduta del muro di Berlino e l’unificazione con l’Ovest, iniziò la ricostruzione di Dresda, una città che oggi possiamo ammirare con un nuovo e folgorante splendore, anche se tutto ciò che è stato ricostruito equivale solo al 5% di com’era prima (molto simile a Vienna secondo fonti abbastanza autorevoli).
La città
Eccentrica e sfavillante, ma autentica ed elegante. Dresda è una città con una storia fatta di profondi mutamenti storico-sociali: dallo splendore del Regno Sassone, alla distruzione durante la seconda guerra mondiale, alla rinascita socialista fino all’era post 1989 che le ha dato la forma che vediamo oggi. Una città giovane, d’avanguardia, internazionale ma non cosmopolita, aperta al mondo globalizzato ma fedele alla sua identità. Qualche mese fa un articolo sul Corriere della Sera la descrisse come la roccaforte dell’estrema destra in Europa. Leggendo quell’articolo si aveva l’impressione che la città fosse rimasta arroccata al Terzo Reich, che le bandiere con le svastiche continuassero a svettare fieramente sui suoi palazzi, che la gente facesse continuamente il saluto romano, e che gli abitanti andassero a fare la spesa in divisa militare. Solita stampa assoggettata al potere omologante del mainstream. Dresda è, prima di ogni cosa, una città d’arte, tra le più belle e ricche del nostro continente. Dresda è una città alternativa, vissuta principalmente da tedeschi, con poca immigrazione (ma questa è una costante di quasi tutte le città dell’ex DDR) ed una gran voglia di gridare la propria autenticità, che i suoi abitanti salvaguardano con ogni mezzo. L’estrema destra è forte in tutta l’ex DDR, come è forte in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico. La stampa occidentale, quella “giusta” a cui crediamo sempre e ciecamente, dovrebbe chiedersi perché ciò avviene piuttosto che indicare il dito verso derive a loro poco gradite. La verità è che l’unificazione del 1990 è narrata ufficialmente come una salvezza, con un Ovest “buono” che è venuto a liberare un Est oppresso dal socialismo, con un economia in rovina al quale il marco tedesco avrebbe portato benessere e sviluppo. E che grazie alla generosità dell’Ovest ricco, per amore dei fratelli poveri dell’Est, adesso non si vive più in dittatura e si ha libero accesso all’economia di mercato. I fatti concreti sono altri:
L’integrazione economica nell’area del marco rappresentò un trauma economico, sociale e politico di inaudita violenza per la Germania Est, i cui effetti continuano a farsi sentire fino ai giorni nostri. Se nell’immediato la riunificazione determinò il crollo del PIL e della produzione industriale dell’ormai ex DDR, e un’esplosione del numero dei disoccupati, le conseguenze a lungo termine furono ancora più drammatiche: la distruzione di una struttura economica “indigena”, lo sfruttamento delle risorse economiche presenti, la liquidazione sociale non soltanto delle élite politica, ma anche del ceto intellettuale di un paese, come pure la distruzione dell’identità acquisita di un popolo […] Il tutto a vantaggio delle banche e delle grandi imprese tedesco-occidentali. Il combinato disposto attraverso il quale fu compiuta questa annessione/colonizzazione da parte dell’Ovest ai danni dell’Est fu il seguente: un primo strumento fu l’integrazione monetaria stessa, che comportò l’adozione, praticamente da un giorno all’altro, di una moneta, il marco dell’ovest, fortemente sopravvalutata rispetto ai fondamentali della sua economia, le cui imprese persero qualunque capacità competitiva e si ritrovarono insolventi nel giro di poco tempo […] Il secondo strumento fu la privatizzazione in massa delle imprese di Stato dell’Est per mezzo della famigerata Treuhandanstalt, una sorta di istituto di amministrazione fiduciaria che assunse il controllo di quasi tutto il patrimonio della DDR allo scopo di privatizzarlo nei tempi più brevi. In poco tempo le imprese dell’Est passarono quasi tutte nelle mani delle banche e delle grandi imprese private dell’Ovest, a prezzi di saldo ovviamente. In pratica si privatizzò un’intera economia: una distruzione di entità tale che nella storia economica mondiale è senza precedenti in tempi di pace ed è estremamente rara anche in tempi di guerra.
Thomas Fazi e William Mitchell — “Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale.” — Meltemi editore 2018.
Non v’è dubbio che c’è una rabbia che si alimenta nei confronti dell’imposizione del modello neoliberale da seguire senza alternative. Non c’è dubbio che un muro invisibile è ancora ben tangibile tra le due Germanie, basta ascoltare i racconti della gente. In poco tempo ne ho sentite diverse: ho conosciuto due persone dell’Ovest dirmi che si sentono più vicine agli italiani che ai loro connazionali dell’Est, ho parlato con un ragazzo nato negli anni novanta che a quattordici anni fu chiamato per giocare nel settore giovanile di una prestigiosa squadra di calcio dell’Ovest ed i suoi compagni lo trattavano come un miserabile, con battute del tipo: vuoi da mangiare morto di fame? Ti porto delle scarpe che non uso più poveraccio? E così via. L’arroganza del governo dell’Ovest, camuffata di fratellanza, emerge ancora oggi tra i discorsi della gente di Dresda. La distruzione del proprio sistema economico e sociale a favore di un’economia ultra capitalistica ha aumentato le diseguaglianze, l’emigrazione e il divario con le città dell’Ovest. Penso sia normale che, un popolo non appiattito dal pensiero unico, si ribelli e ricerchi la propria identità contro un’imposizione di un sistema che non ha portato altro che una nuova dittatura, non politica ma finanziaria. Non so quale sia meglio o la meno peggio. Ma finché vivremo ci sarà, e sempre ci dovrà essere, un’alternativa. Accettare il presente in maniera irreversibile è l’obiettivo del pensiero unico dominante, che lo inculca nei suoi sudditi fin dalla più tenera età, con la televisione, i modelli di comportamento, la pubblicità, con la colonizzazione del pensiero.
In quattro giorni non ho mai visto né fascisti né dei fatti gravi da mettermi all’erta per imminenti pericoli squadristi. Sono stato fortunato o sono stato troppo poco tempo? Può essere. Fatto sta che Dresda è una città che incute pace e calma. L’architettura del suo centro storico, seppur ricostruita, dà al visitatore l’impressione di farlo camminare nella profondità della storia, dove gotico e barocco s’innamorano, dove il fiume Elba dà il balsamo alla vita di tutti i giorni.
Tour Mattatoio
Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario del libro di Vonnegut. Molti articoli a riguardo sono usciti nei giornali di tutto il mondo. Lo scrittore americano è considerato una sorta di icona del pacifismo, la sua opera fulmina il lettore in una riflessione profonda sulla guerra e i suoi traumi postumi. Ripercorrere le orme del romanzo è un dovere per comprendere a fondo l’anima di questo luogo.
Mi incontro con Danilo Hommel che si è inventato il tour del libro, mi porterà fino al mattatoio ripercorrendo la storia di quella notte che ha cambiato per sempre il destino di questa città. Esordisce con una virulenta imprecazione contro il sistema capitalistico vigente oggi, che ha devastato i legami tra le persone e la spiritualità, che ha messo i cittadini gli uni contro gli altri nel nome dell’ultra competitivismo, che ha distrutto un sistema imponendone un altro da un giorno all’altro, come si cambiasse un abito. Ha uno sguardo nostalgico verso la DDR, lo stimo già!
Danilo sa ogni cosa del bombardamento e di Vonnegut. Seduti su una panchina vista Elba mi illustra le carte che ha recuperato, dall’imprigionamento dello scrittore all’orario dei treni che lo hanno portato fino a Dresda dal confine francese. A proposito dell’arrivo di Vonnegut a Dresda, mi svela un segreto. Nel romanzo così viene descritto l’arrivo di Billy Pilgrim, il protagonista dell’opera, nella città sassone:
Gli americani arrivarono a Dresda alle cinque del pomeriggio. Le porte dei carri merci furono aperte e incorniciarono la più bella città che la maggior parte degli americani avesse mai visto. Il suo profilo era intricato, voluttuoso, incantato e assurdo. A Billy Pilgrim parve un quadro del paradiso da scuola domenicale.
Kurt Vonnegut — “Mattatoio n.5”, Feltrinelli 2018
È uno dei passi più citati del libro, soprattutto quando lo si vuol mettere in relazione alla città. Ma Danilo mi svela un documento che non ho idea di dove abbia potuto scovare: il treno con cui fu trasportato Vonnegut a Dresda arrivò in città alle cinque del mattino di un giorno di gennaio, a quell’ora non poteva esserci luce ed era tutto buio pesto, quindi quella descrizione è un misto tra la sensazione dell’arrivo e la vista, in un altro momento, della città. Lui era Vonnegut, mi dice Danilo, lui era uno scrittore e poteva farlo.
Gli Alleati hanno accusato i tedeschi di voler esagerare il numero dei morti del bombardamento per fare propaganda. È un dibattito ancora molto aperto da queste parti, e non avremo mai il numero esatto dei decessi di quella notte, è impossibile. È certo però che tre bombardamenti in dodici ore, studiati ad hoc per radere al suolo la città di Dresda, ha un nome: genocidio. E dovremmo sempre chiamarlo così: il genocidio di Dresda. Danilo mi illustra ogni dettaglio di quella notte fatidica tra il 13 ed il 14 febbraio del 1945. Ha trascritto le comunicazioni ai piloti inglesi da parte delle sedi centrali, conosce ogni elemento chimico presente nelle bombe, mi narra di mille e mille altre storie mentre ci avviamo lungo l’Elba per il Mattatoio. Come detto non fu l’unica città a essere bombardata durante la guerra, ma Dresda aveva un significato particolare. Perché era la città della cultura tedesca, che al momento del bombardamento ospitava centinaia di migliaia di profughi provenienti da diverse parti del continente, a dimostrazione di come fosse un’oasi di pace al centro di un continente dilaniato dalla più spietata furia omicida dell’uomo. Dresda è stata rasa al suolo perché l’obiettivo era distruggere l’identità tedesca, un vero e proprio culturicidio che si aggiunge alla distruzione sistemica della vita umana.
Arriviamo al mattatoio. È una delle strutture più grandi dell’intera città. Oggi non funge più da mattatoio, ma è un insieme di complessi dove si svolgono convegni e grandi eventi. Siamo a una ventina di minuti a piedi dal centro. Rimembro:
Sopra la porta dell’edificio c’era un grosso numero. Il numero era “cinque”. Prima che gli americani potessero entrare, la guardia che faceva da interprete disse loro di ricordare quel semplice indirizzo, nel caso si fossero persi nella grande città. Il loro indirizzo era questo: Schlachthoffunf. “Schalachthof” significava mattatoio; “funf” era il vecchio buon numero “cinque”.
Kurt Vonnegut — “Mattatoio n.5”, Feltrinelli 2018
Foto di rito davanti il portone con il numero 5 e poi dentro, fino al bunker che salvò la vita all’autore. È adibito alle visite, un muro con foto e ricordi di Vonnegut da un lato, un lungo guardaroba dall’altro che, al posto delle grucce per gli abiti, un tempo aveva i ganci per tenere i tronchi dei bovini. È un bunker, un ambiente sotterraneo, scuro e angusto, come tutti i bunker del mondo. Ci si conservava la carne al tempo che questo spazio fungeva da mattatoio, e qui l’autore trovò salvezza. Una frase riecheggia e si ripete nell’atmosfera umida di questo ambiente, è una frase in inglese che afferro gradualmente e in maniera sempre più chiara, mentre salgo l’ultimo gradino per andare via mi giro per dare ancora uno sguardo a questo spazio, e finalmente comprendo appieno quella frase, che mi si materializza davanti agli occhi mentre le mura cominciano a tremare e le lettere s’infuocano, dice: So it goes!
La città in cui sono nato, la vedo,
Il vento soffia sugli spazi vuoti
Tra le poche case appena costruite
E quelle, ancora più rare, che sono rimaste in piedi.
I bombardieri sotto cui, in cantina, il bambino
Che ero si rannicchiava, tremando per la vita
Mentre le esplosioni si avvicinavano
La luce si spegneva le mura tremavano
Più leggeri i bombardieri facevano ritorno a casa
E io uscivo dalla cantina addossato
Alla parete perché il fuoco gocciolava, cacavo
Nel cespuglio sulla piazza e osservavo con sollievo
La città in fiamme. A otto anni
Per la prima volta mi feci un’idea. Mi piaceva.
Perché qualcosa sorga, qualcosa deve sparire.
B.K. Tragelehn — “Scuola elementare” tratto da “100 poesie dalla DDR” — Edizioni ISBN
Ricostruzione
Le macerie sono oggi un ricordo lontano nell’architettura della città, ma sono rimaste nell’anima dei suoi abitanti, una cicatrice che richiederà ancora molto tempo per rimarginarsi. Il centro storico è un gioiello, ovunque ti giri vedi magnificenti cupole di chiese, sia cattoliche che protestanti, palazzi imperiali e le solite statue nere che sembrano perseguitarti. Continuo a sentire quella sensazione di essere spiato da loro, a volte mi giro di soprassalto e vedo che raddrizzano il viso, ma perché sono così nere? Praticamente carbonizzate? Non riesco a capire, chiedo e risolvo l’arcano. Sono state costruite utilizzando l’arenaria della Svizzera Sassone (il grande Parco Nazionale della Sassonia), un materiale resistente nei secoli ma che si annerisce molto facilmente. Molte di queste statue sono state recuperate dalle macerie, molte altre sono state ricostruite dopo l’89. Stanno lì, a governare la città dall’alto dei loro tetti ove son poste. Osservano i viandanti e se le si guardano attentamente si riescono a intuire movimenti impercettibili. Non le temo, anche di fronte la mia camera da letto in Italia ho tre statue poste sulle facciata di una Chiesa che praticamente sanno tutto di me. Ho imparato a conoscerle, a comunicare con loro, a viverci insieme. Hanno un’anima e vivono intensamente. Lo so che loro sanno che io so, il loro nero mi dovrebbe incutere timore ed invece sto lì a ricambiare l’inquietudine. O statue carbonizzate, proteggete questa incantevole città da altre sciagure e se volete farvi avanti io son qui!
Visito la sublime Frauenkirche, icona della città e, da molti considerata, la più bella Chiesa luterana di Germania. Completamente distrutta dal bombardamento del 45, è rimasta in macerie praticamente fino all’unificazione del novanta. Ricostruita anche grazie all’appello di molti esponenti dell’arte, oggi celebra una nuova vita ed è l’emblema della rinascita della città. E’ un barocco imponente, con un altare ricco di decorazioni, le statue bianche con le barbe dorate, putti serpottiani sui fianchi delle colonne, lo splendido organo che tocca il tetto, l’oro che sprizza tra le candide sfumature altisonanti dei suoi protagonisti.
Il popolo ha bisogno di credere, è necessario tornare a far vivere lo spirito contro il raziocinio imposto dal progresso, che è generato solamente da un’idea materialistica della storia. E’ stato questo, secondo chi scrive, uno dei grandi errori del comunismo europeo. Avere avuto una visione del progresso in chiave comunque materialistica, tanto quanto il fascismo e il liberismo, che col tempo ha distrutto la spiritualità, eliminando l’elemento rivelatore e sensoriale dall’uomo, l’unico in grado di farci sentire la profondità della vita.
La ricostruzione di un luogo passa anche dalla ricostruzione dell’identità dei suoi abitanti. Dresda ha bisogno delle sue Chiese per rinascere, per provare ad avere una propria fisionomia che non si omologhi a quelle città nuove e senz’anima che idolatrano solamente il danaro.
Invece di cercare sempre la modernizzazione e la crescita, dovremmo orientarci nella direzione dell’equilibrio, dell’adattabilità e dell’armonia. Invece di desiderare di salire e progredire, dobbiamo adattarci a ciò che esiste, capire dove siamo e armonizzare i processi sociopolitici.
Aleksander Dugin — “La quarta teoria politica” — Novaeuropa edizioni
Neustadt
Dall’altro lato dell’Elba inizia un’altra Dresda. Si esce dallo splendore del centro, con le sue incantevoli Chiese, i suoi superbi musei e i suoi vicoli che ci ricordano secoli di magnificenza storica, per entrare lentamente in un Dresda differente, più vicina all’immaginario della Berlino underground che tanto ha affascinato, ed influito, la nostra cultura contemporanea. Seguendo il ponte che passa sopra il fiume, in pochi minuti mi lascio alle spalle uno degli skyline più ammalianti d’Europa, per inoltrarmi nel quartiere di Neustadt. E’ la zona più viva della città, con i suoi bar e la sua atmosfera anarchica. Giovani punk, gente di tendenza, tanti bar e molta gente che beve birre per strada. Passeggiando per il quartiere si respira subito un’aria differente, di ribellione e di pace. Un murales con su scritto All cops are Pegida fa intendere subito che qui l’estrema destra non è gradita. L’architettura è differente perché è uno di quei pochi quartieri che non è stato particolarmente danneggiato dal bombardamento del ‘45. Qui resiste uno stile autentico, i suoi palazzi richiamano l’eleganza di inizio novecento dal retrogusto prussiano. Sono aggraziati e in perfetta armonia tra di loro. Si susseguono per le vie in fratellanza, quasi tenendosi per mano. In alto vi è un meraviglioso parco dove stendersi e rilassarsi per qualche ora in questo piacevole week-end di primavera. Studenti e famiglie, coppie che amoreggiano ed equilibristi che si esercitano su una fune appesa tra due tronchi d’albero. Basta ammirare questa gente per essere attraversati da un sentimento di concordia. Dresda mi sembra tutto tranne che una città di estrema destra. Ma il sole sta tramontando, meglio cercare un posto dove bere e far amicizia. Impresa che è molto più semplice di ciò che mi attendevo.
C’è un mini-alimentari che vende birre a prezzi stracciati, tutti prendono da bere lì e poi si siedono fuori, sul marciapiede o sugli scalini dei locali ormai chiusi a quell’ora. In poco tempo quell’incrocio di strade si affolla e vengono fuori persone d’ogni genere: ci sono i rasta e gli studenti, i punk e la gente comune, chi fuma le canne e chi sussegue con birre su birre. Mi siedo vicino a dei ragazzi che suonano la chitarra seduti per terra, intonano dei versi tedeschi con grazia, sembra quasi una canzone dei Marlene Kuntz cantata nella lingua di Goethe. Apprezzo e mi piace osservarli, sono giovani e pieni di vita. Stilosi nel loro ricercare l’arte di strada, nel loro tentativo di mantenere vivo il punk, seppur lontano anni luce dai crestoni di Carnaby Street di venti anni fa. Uno di loro mi si avvicina, è muscoloso e mi sorride, mi chiede qualcosa che ovviamente non comprendo, al mio sguardo attonito risponde con un’altra risata, solleva la manica della sua maglietta e da lì viene fuori un topo, non una belva per carità, ma sempre di ratto si tratta. Rimango di sasso. Lui si diverte a farlo andare su e giù sul suo braccio, lo mostra ai miei vicini. Io ho i conati, prendo un’altra birra e cambio posto. Proseguo nel chiacchiericcio nomade, vado a dormire soddisfatto ma mi sveglio nel pieno della notte assalito da un incubo: quel topo proprio non va via dalla testa, l’inconscio prova a espellerlo, mi riaddormento. L’anarchia è così, penso. O forse è solo il punk griffato ddr. Non so. Ma Neustadt è lì ad attendermi, è lì che si scova l’altra anima di questa città, quella della musica, quella creativa, quella di oggi, quella della notte.
Il ponte antiUnesco
Una città così incantevole non poteva rimanere fuori dalle grinfie dell’Unesco, il braccio turistico della Nato, che unilateralmente decide quali città e quali luoghi dare in pasto al turismo di massa, snaturandone l’identità e mutandone per sempre gli equilibri comunitari. Non si contano più gli esempi di città che, divenute Patrimonio Unesco, hanno perso ogni sembianza di autenticità ed ogni forma basilare di vita cittadina. Gli abitanti fuggono e loro proprietà diventano b&b. Spariscono i ferramenta, i macellai e i materassai. Aprono bar e ristoranti, negozi di souvenir, spuntano le casse anche dentro le Chiese, e se non parli almeno tre lingue non puoi lavorare più a casa tua. L’autenticità diventa mercato e l’identità folclore. Però porta turisti, e i turisti portano soldi. Poco importa se a Barcellona ormai si parla solo inglese o se Venezia sta affondando sotto il passo rapace di trenta milioni di visitatori l’anno (più di New York) in una città che conta appena cinquantamila abitanti. Portano soldi. Che tutto diventi luna park.
A Dresda però i piani egemonici dell’Unesco sono stati rovinati dalla volontà popolare. I fatti risalgono al 2004, quando la città fu inserita nel programma di affiliazione del World Heritage a suggellare lo splendido lavoro di ricostruzione del centro storico post 1989. Ma l’apertura al mondo occidentale ha portato anche un altro problema: l’aumento delle macchine, non così tanto diffuse durante la DDR (come del resto in tutti gli altri paese del blocco sovietico), che ha reso necessario la costruzione di un ulteriore ponte per collegare la città con i sobborghi urbani dall’altro lato dell’Elba. Ma tale necessità fu ostruita dall’Unesco, indifferente ovviamente alle esigenze della comunità ed obbediente solamente ai capricci del mercato, che si oppose alla sua costruzione dicendo che deturpava il paesaggio.
La decisione viene affidata a un referendum popolare: gli abitanti di Dresda approvano il ponte anche a rischio di perdere il label World Heritage, che in effetti gli viene tolto nel 2009. Nell’agosto 2013 i cittadini festanti inaugurano il nuovo ponte con la nostra più convinta approvazione.
Marco D’Eramo — Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo. — Feltrinelli 2017
Il Walschlössenbrücke è un ponte moderno situato a 1,6 km dal centro. Io l’ho notato solo il terzo giorno che ero lì dopo una lunga passeggiata costeggiando il fiume, non deturpa minimamente il paesaggio, non ostruisce la visuale delle cupole né la silhoutte della città. Fu il primo caso in Europa dove l’Unesco ha depennato una città dalla lista World Heritage. Dresda ha il mio rispetto assicurato a vita per questo gesto. Prima i bisogni dei cittadini, di chi vive quotidianamente un luogo, di chi ci lavora, di chi ama una città, di chi cresce i propri figli con sacrifici. Poi vengono i turisti, queste masse amorfe che si muovono per il mondo e non sanno niente dei luoghi che visitano, che vogliono solo divertirsi e rilassarsi, e pensano che i soldi possano comprare tutto. Ma non qui, questa è Dresda, città non allineata che resiste, che dà ancora voce ai suoi abitanti e, grazie anche a gesti coraggiosi come questo, cerca di riappropriarsi di una propria identità, rigettando l’omologazione turistica imposta dalla globalizzazione. Dresda esempio da seguire.
Notte
È venerdì sera. Sono qui da trentasei ore e non ho fatto altro che camminare, prendere appunti sul taccuino, scattare qualche foto, rifocillarmi, e continuare ed esplorare. Dalla finestra della mia camera del fastoso ed elegante Vienna House Hotel ammiro l’ampiezza e la forza dirompente della Neumarkt, la piazza simbolo della città con la statua di Lutero al centro. Piove di una pioggia obliqua. Qualche fulmine accenna il suo blu elettrico nel cielo di Sassonia. Mi pervade una sensazione di felicità, di quelle che riempiono lo spirito e ti fan capire che stai facendo la cosa giusta. Metto su la camicia hipster, lascio gli occhiali sulla scrivania, prendo con me solo soldi e sigarette, ho trovato un locale che fa un concerto jazz, ovviamente a Neustadt. Mi manca un ombrello. M’avvio ad ogni modo.
Arrivo al Blue Note, storico ritrovo della musica di Dresda, completamente fradicio. L’acqua si è inculcata in alcuni fori impercettibili della giacca di pelle e ho la schiena madida. Un paio di whisky m’asciugano e mettono a livello lo spirito. Si espone una band eccelsa che tiene ritmi rimembranti il grande blues dei ghetti americani degli anni sessanta. E’ un locale lungo e stretto dove parlare col vicino è semplice e non invasivo, essere italiano è ancora un punto di forza in una città dove il turismo non ha ancora snaturato la sua essenza. C’è la cordialità tipica di quei posti dove ancora il visitatore è percepito come un portatore di cultura con cui confrontarsi, e non un semplice individuo da spennare. Nella stessa Berlino un locale come quello in cui mi trovo adesso sarebbe pieno di turisti e stranieri, che supererebbero probabilmente anche i locali. Ma a Dresda le cose vanno diversamente e al Blue Note sono l’unico straniero e mi chiedono perché sono lì, come mai quella città, e altre domande tipiche di città che resistono all’invasione della globalizzazione che trasforma, turismo in primis, in merce da sradicare ed omologare qualunque aspetto dalla vita. Ma Dresda resiste, s’apre al mondo ma si mantiene autentica. Ama la sua stessa complessità che gli dà un’aurea di non allineata, e Neustadt si lega in maniera indissolubile a quartieri come Exarchia ad Atene, St.Pauli ad Amburgo e la Vucciria a Palermo.
Durante il concerto tutti lo notavano, era lo spettatore con maggiore euforia, abbracciava le genti e si muoveva con movenze celentaniane. Capello alla Jeff Buckley e camicia floreale con canotta contornata da collanine. È un gran personaggio e con piacere faccio la conoscenza sua e dei suoi amici fuori dal locale. È un musicista, anche abbastanza noto tanto che alcune sue canzoni su spotify hanno raggiunto mezzo milioni di ascoltatori. Si chiama Ansa Sauermann ed è un vulcano di energia, amante della notte ribelle e con uno spirito estremamente coinvolgente. È amico di uno dei musicisti che hanno appena terminato il live, mi dice che adesso si muoveranno in un altro locale punk dove lo stesso amico suonerà la tromba in un concerto a favore dell’immigrazione. Pioppo dentro al loro furgoncino, tra gli strumenti infilo le gambe ed apro una lattina di birra. Accolto con tutti gli onori dai compagni della Ddr sono emozionato per dove questa serata mi sta trascinando. Siamo arrivati in un posto indefinito. Di africani non c’è traccia nonostante la serata sia dedicata a loro, ma Ansa e i suoi amici sono molto propensi al dialogo e al confronto. Quando la band inizia a suonare la notte si fa incandescente, i ritmi sono euforici e la danza naturale. Una decina di musicisti sul palco e un cantante dalla voce suprema rendono quel luogo un habitat di felicità, abbracci e condivisione. Sono passate tante ore e non vedo più nessuno del gruppo con cui sono arrivato. Trovo un taxi e torno in hotel fiero dalla notte d’avanguardia appena trascorsa. Al mattino cerco sul Tubo qualche video di Ansa, ve ne sono diversi, ne ascolto alcuni. Una consapevolezza m’assale: non odio il globalismo, odio l’imposizione del globalismo americano in tutte le arti del mondo. Se dobbiamo essere inglobati dalla musica internazionale che almeno si dia un po’ di spazio a tutte le lingue, non può esserci sempre e solo quella anglofona, che nausea! E poi gli italiani amano gruppi di cui non capiscono neanche una sillaba, a questo punto perché non dobbiamo ascoltarci il rock tedesco invece di questa lagna perenne di melodie da figli di papà anglofoni? Più Ansa Sauermann e più autori locali di tutto il mondo che cantino nelle loro lingue per mantenere viva la la loro identità; e invito a sabotare tutti i gruppi che, per prendere mercato e farsi “notare”, cantano in inglese seppur sono latini o fenici, a loro va il mio più profondo disprezzo.
W Ansa Saurmann, W gli artisti che amano la propria lingua, W il pluriversalismo.
Kurt vive
Vonnegut è ancora oggi, giustamente, considerato un maestro della letteratura americana, e non solo. Da poco è uscita in Italia la raccolta “Tutti i racconti” edita da Bompiani. Un malloppo da 1400 pagine all’umile costo di 38 euro. Una sorta di opera omnia e di omaggio all’uomo che trasforma l’ironia in poesia e lo humor in emozione (cit. Franco Coletti). Ripercorrendo le pagine del Mattatoio si scopre un autore che ama riecheggiare i flussi del suo spirito, trasformando il tempo in episodi che si rincorrono alla ricerca di una quadra, che deve sempre e comunque rimanere meditativa ed in evoluzione. Chiunque ha letto l’opera sa che Billy Pilgrim rappresenta tutte le anime della guerra, la sua vigliaccheria mista alla forza di resistere. Chiunque ha letto Vonnegut sa che le guerre sono in parte incoraggiate dai libri e dai film. Chiunque ha letto “Mattatoio n.5” sa che alla città di Dresda non è stata data giustizia e che il suo bombardamento è stato fatto passare come uno dei tanti bombardamenti sulle città durante la guerra, mentre è stato un attacco diretto e spietato alla cultura tedesca al fine di annientarla, radendola al suolo e mettendo in ginocchio un popolo massacrandone l’anima per tempo immemore. Male necessario per abbattere il nazismo una volta per tutte? Stupidaggini! Eh ma la Germania se l’è cercata ed è stata una vendetta per Coventry del 1940 in molti dicono. Anch’esse immense stupidaggini. Coventry è stata bombardata nel 1940, ben cinque anni prima, e gli inglesi hanno avuto tempo e modo di rifarsi bombardamento decine di città tedesche, quanto deve durare una vendetta? Duecentoquarantamila morti in una notte non sono un crimine, sono un genocidio programmato nei minimi dettagli, con tre raid in dieci ore in grado di annientare qualunque cosa si muovesse e avesse vita. Chi fu artefice di tutto ciò fu adornato di medaglie al valore, fu fatto passare per salvatore. Noi la sappiamo la verità, noi attendiamo fiduciosi la giustizia divina.
A Dresda fischiavano ancora allegramente i termosifoni a vapore. I tram scampanellavano. I telefoni suonavano e c’era chi rispondeva. Le luci si accendevano e si spegnevano quando venivano girati gli interruttori. C’erano teatri e ristoranti. C’era uno zoo. Le attività principali della città erano costituite da industrie farmaceutiche, alimentari e di tabacco.
Kurt Vonnegut — “Mattatoio n.5”, Feltrinelli 2018
Nei confronti di Vonnegut teniamo un debito infinito per la memoria storica del nostro continente e per la coscienza collettiva tedesca. La sua opera funge da ricordo che non si deve mai sbiadire. Le sue parole congelano nel tempo l’orrore umano più disumano, la spietatezza più crudele, la violenza più inaudita. Non possiamo e non dobbiamo fare a meno di ricordare. Dobbiamo sempre sapere a cosa può arrivare la mente umana. E solamente con un cambio di approccio antropologico le cose un giorno potranno essere differenti. Nei giorni in cui scrivo questo racconto, i portuali di Genova e Marsiglia sono riusciti a non far attraccare le navi saudite che dovevano far carico di armi per la loro guerra tesa allo sterminio dell’inerme popolazione yemenita. Solo un approccio del genere può assicurarci una speranza per il futuro. Ciò che è avvenuto a Dresda in quella notte dannata del febbraio del 45 continua a ripetersi oggi, con forme diverse ma con gli stessi risultati: morte, distruzione, fame ed esodi biblici. Solo un’avvenuta presa di coscienza dei popoli può portare dei mutamenti in positivo, ci vorranno tempi lunghi e molti sacrifici ma una rivoluzione del pensiero da qualche parte deve pure sempre iniziare, Marsiglia e Genova sembrano far da apripista ad un nuovo corso pacifista. Modelli!
Lo sviluppo della tecnica e l’idea di progresso perseguiti dall’occidente nell’arco della sua storia ha portato all’annientamento del mondo nel secolo breve. Due guerre mondiali con in mezzo la nascita dei totalitarismi non possono che essere ricordati come il momento più buio dell’intera umanità. Non era solo la guerra nella sua essenza devastatrice a colpire, ma il metodo sistematico della ricerca tesa alla sempre maggiore crudeltà, a fare sempre più morti in nome della vittoria finale. Il bombardamento di Dresda rappresenta l’apice di questa idea criminale, il punto di non ritorno, l’efferatezza della crudeltà umana. Lo sviluppo delle tecniche di distruzione del mondo continuano ad andare avanti senza trovare ostacolo alcuno. I cosiddetti poteri forti continuano a vedere nello sviluppo militare il simbolo della propria riconoscenza globale. False organizzazioni internazionali, nate per evitare questi scempi, non fanno altro che giustificare chi può avere e usare armi e chi no. Sono sovrastrutture create ad hoc per pulirsi la coscienza nazionale e far ricadere la colpa sulle comunità internazionali portatrici di pace con l’imposizione della cultura coloniale-atlantista su tutti i popoli del mondo che vogliono mantenere vive le proprie identità e tradizioni. Se il prezzo per la pace, e la distruzione di tutte le armi del mondo, deve passare per il blocco dell’idea di questo progresso, allora saremo ben felici di tornare allo stato brado, con la parola orale come unico mezzo di comunicazione, e tornare a vivere in armonia con gli elementi della natura come Dio ci ha fatto. Se ciò è un’utopia allora si può realizzare.
Katholische Hofkirche (una poesia)
Di un bianco splendente,
colonne di marmo
verde, rosa e rossastro
sostengono l’altare.
E nel suo dipinto
Cristo è raffigurato
nell’atto di muovere
verso il divino.
La messa è in atto
l’Alleluja s’alza,
eterna e catartica,
nella eco dei credenti.
L’organo dà il ritmo
del sacro,
il piano incide
dando profondità alle note.
Candelabri pendolano
da archi sopraffini,
il bianco è purificatore
della violenza delle bombe.
Altari adornati
di splendidi putti,
esaltano il barocco
incastonato nell’oro.
Il suono dei fedeli
riecheggia sacro
tra le inamidate mura
del simbolo cattolico di Dresda.
(Estemporanea poetica dell’autore)
Prager Straße
Fuori dal centro storico, dal lato opposto di Neustadt, c’è una parte della città che può dare tanto al visitatore che voglia comprendere le mille sfumature di questa urbe. L’architettura è, come al solito, l’espressione di un potere e di una volontà politica. E se è vero che il governo della Ddr non ha voluto ricostruire le meraviglie del centro storico per rafforzare l’ateismo comunista e non ridare linfa alla religione, allo stesso tempo non poteva lasciare tutta la città in macerie, se si auspicava di ricostruire una vita comunitaria, altrimenti avrebbe potuto imporre la sua ideologia solo alle pietre.
Una lunga passeggiata per questa parte della città è la maniera migliore per comprendere l’architettura socialista del dopoguerra. Immensi cubi di palazzi, costernati di lunghe linee rettilinee e verticali, dove nulla è lasciato all’estro e tutto deve fluire verso la perenne rivoluzione comunista. Socialismo estremo, geometria dell’aria, scomposizione matematica e maniacale degli spazi e degli ambienti. Ampi viali e florenti giardini, strade limpide e percorsi rigogliosi di verde. Il contrasto tra questa parte della città, ricostruita sui dettami di Mosca dopo la guerra, il centro storico, ricostruito dopo l’89 rimarcando lo splendore sassone, e il quartiere di Neustadt, che invece dà ancora l’idea dell’architettura Art Noveau inizio novecentesca, sono un’amalgama unico di stili architettonici, rari da trovare all’interno di una sola città. Architetture rappresentative di un’epoca che fu, ma che continua a rielaborarsi nel tempo arricchendosi della propria autenticità, della forza della propria storia e della sua identità, in costante evoluzione e saldamente legata a un territorio che ha dato alla luce la più luminosa e splendente arte d’Europa e alla notte più buia del secolo novecento.
Gemäldegalerie Alte Meister
La stupefacente Pinacoteca dei Maestri Antichi è sita all’interno dello Zwinger, capolavoro architettonico settecentesco e fiore all’occhiello del barocco tedesco. Completamente raso al suolo dal bombardamento del ’45, è stato interamente ricostruito nel tempo ed oggi torna a splendere e irradiare magnificenza a tutta la città di Dresda. Ampi giardini, fontane dalle geometrie lineari, percorsi che ispirano ordine e luminosità, circondati da una struttura che alterna le statue annerite alle cupole che rimembrano le chiese ortodosse dell’est. Il semplice passeggiarci all’interno fa sentire il peso della storia dell’arte di questo luogo, le sue impronte secolari, le sue pietre riemerse dalla macerie che richiedono considerazione e ossequi.
La Gemäldegalerie Alte Meister è uno dei musei più importanti del mondo. Già salire le scale che introducono alle sale museali dà l’idea della sua maestosità. Possiede una collezione di più di duemila dipinti, appartenenti alle più importanti scuole di pittura europee dell’ultimo millennio. Il primo quadro entrando che ci si trova di fronte è l’incantevole San Sebastiano di Antonello da Messina, i cui colori emettono ancora una luce abbagliante nonostante i suoi più di cinquecento anni di vita. Ogni volta che mi capita di vedere una riproduzione del San Sebastiano mi ritorna in mente il momento in cui venni a conoscenza del dipinto, tanti anni fa, attraverso la lettura di Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, lo scabroso, reazionario e irritante poeta giapponese che lega al San Sebastiano di Guido Reni il ricordo della sua prima masturbazione:
Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevo imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante…
Yukio Mishima —” Confessioni di una maschera” — Feltrinelli 2007
Tralasciando questi flashback letterari dal retrogusto trasgressivo, ricordando comunque che Mishima si sarebbe fatto poi ritrarre, proprio come san Sebastiano, nel 1963, dal fotografo Eikoh Hosoe, il focus torna sulla galleria, scrigno di tesori d’arte dal valore incommensurabile. Ci vorrebbero giorni, e forse addirittura settimane, per approfondire tutte le opere che si trovano qui. L’audio-guida più che aiutare lascia un sapore di totale impreparazione a un luogo così fondamentale per l’arte del nostro continente. Tanti quadri che hanno plasmato la nostra idea di pittura, e che studiamo da sempre nei nostri testi scolastici e accademici, si trovano qui: la Venere dormiente del Giorgione, Il trionfo di Bacco di Garofalo, la Madonna Sistina di Raffaello, quadro più importante di tutta la galleria, con i suoi angeli che guardano verso l’alto, simboli più che abusati dall’iconografia occidentale dell’ultimo secolo per rappresentare la ‘tenerezza’. Ma sono troppi, e tutti troppo importanti, tutti maestri che, per trovarsi in questo luogo, rappresentano l’olimpo della storia dei pennelli e dei colori: Botticelli, Del Cossa, Pintoricchio, Passarotti, Palma il Vecchio, Parmigianino, per indicare solo gli italiani del primo piano.
C’è un quadro che mi colpisce più di ogni altro: è la Torre di Babele di Werner van den Valckert, pittore e incisore olandese della Golden Age. Non lucente e luminosa come quella del Brughel, ma offuscata e cinerina che sembra d’essere in pianura padana in un qualunque mattino di novembre. Le nubi sembrano preannunciare la fine funesta del progetto teso a toccare il divino. Il mondo intorno, composto da lavoratori, navi, attrezzatura da cantiere, carri, buoi, padroni, ponti e capanne, a breve crollerà, insieme alla torre in perenne costruzione, a punire l’idea più blasfema che menta umana abbia mai potuto concepire.
Ma è all’ultimo piano della galleria che l’emozione tradisce e la fierezza patriottica riemerge in tutta la sua adrenalina. E’ la sala dedicata al vedutista italiano Bernardo Belotto, detto il Canaletto. Approdato alla corte di Dresda nel 1747 a soli 26 anni, il grande pittore veneziano, nipote dell’ancor più famoso Canaletto, porta in Sassonia tutta la sua esperienza del vedutismo appresa dallo zio e dagli altri maestri veneziani. Soggiorna per un totale di diciassette anni nella città sassone, rendendole tra i più meravigliosi ritratti di vedute di città che si fossero mai visti fino a quel momento in Europa. La sua è una tecnica che trasmette un realismo così intenso da essere stato considerato, a posteriori, come l’inventore della fotografia.
E’ in questa sala che mi commuovo, ammirando questi capolavori da cui non riesco a staccare né lo sguardo né l’attenzione. Più che dipinti sono immagini che danno vita ai riflessi sull’acqua, alle movenze dei personaggi, alla polvere delle strade, ai materiali delle impalcature, alle sfumature delle nuvole, agli alberi delle barche, al dettaglio delle cupole e, soprattutto, danno un senso di spazio al tempo. Esco dalla sala inchinandomi e camminando all’indietro, come vidi fare una volta a un rabbino al Muro del Pianto a Gerusalemme. Sento una reverenza profonda verso il Canaletto in questo momento, lasciarlo non dandogli le spalle è il minimo che possa fare per le emozioni di cui ha arricchito la mia vita in questo momento.
Lascio la pinacoteca più che soddisfatto, direi pieno di un’eccitante emotività. L’arte più sublime deve avere questo effetto su noi comuni mortali, noi figli del progresso tecnologico che ormai siamo addestrati a scorrere compulsivamente le home dei social network e trovare emozioni solo nella frammentarietà a bassa richiesta d’attenzione, noi generazione a cui hanno insegnano a desiderare un oggetto in vetrina e non ad ammirare un paesaggio e comprenderne le sensazioni che emana. Bernardo Belotto, detto il Canaletto, dall’alto della tua immensità e visione eterna, abbi pietà di noi e perdonaci per aver venduto ogni forma di spiritualità alla mercificazione dell’anima, che non ci fa cogliere neanche una differenza tra un quadro delle tue vedute di Dresda e l’immagine di un cartellone di una figa di Intimissimi alla stazione di bus di una qualunque città italiana non appena scoppia il primo caldo torrido di giugno.
Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che per esso è sacro, non è che illusione, ma ciò che è profano, è la verità.
Guy Debord — “La società dello spettacolo”
Strade e palazzi
Troppe informazioni e troppe cose si possono sapere oggi di un luogo prima di visitarlo. L’incognito e l’enigma, due dei motivi principali che hanno spinto l’uomo a esplorare fin dalla notte dei tempi, oggi sono annientati dalla programmazione dettagliata di ogni passo del viaggio. Schemi rigidi e tempistiche ferree da rispettare ad ogni costo, da immortalare col selfie, per aggiungere la bandierina alle mappe una volta tornati a casa, ed essere di nuovo pronti per esplorare un altro posto, con l’iter ancor più dettagliato per vedere tutto ciò che si deve assolutamente vedere. Mi è capitato diverse volte in passato di andare a visitare posti iconici durante i miei viaggi e non provare alcuna emozione. Così fu a Manhattan, a cui di gran lunga preferii Coney Island, così fu per il tempio d’oro a Kyoto dove la calca di gente soffoca e rende la visita uno strazio aggravato dall’afa asiatica.
Spesso ho trovato maggior agio in strade anonime, dove gente comune cammina coi sacchetti della spesa, dove lavoratori alla fermata del bus leggono il giornale ed i bambini tornano a casa dalla scuola mano nella mano. Mi piacciono questi posti, dove la plebaglia turistica non intasa il suolo della vita comunitaria, dove si sente l’odore del quotidiano, con tutta la sua semplicità e senza nulla da ostentare ai turisti-avvoltoi.
Perdersi per Dresda può dare questa sensazione. Andando su verso Neustadt, a parte le vie centrali riferimento della movida alternative cittadina, ci si inoltra in zone serene dai suoni urbani quasi assenti. L’impercettibile stridere di un tram d’ultima generazione, la eco dei tacchi di una donna che torna a casa dalla sua famiglia, il leggero cigolio dei pedali di una bicicletta, un padre che aggancia il casco alla figlia piccola, due studenti che passano ridacchiando in sottovoce; vige una leggerezza diffusa che abbraccia l’armonia dei palazzi che si susseguono con colori miti e decorazioni eleganti, una sopraelevata per il passaggio del treno e murate di murales a sottolineare la configurazione underground dell’area.
Mi piacciono queste strade, che non hanno niente da offrire ai turisti, che rimangono fuori dai circuiti imposti dalla lonely planet. Mi piacciono questi luoghi che ancora danno un segno di ignoto alla scoperta, queste strade che emanano odori neutri e visioni asettiche. Si impara di più su un popolo andando al supermercato, fermandosi alla cassa per mezz’ora per vedere cosa acquistano e come si nutrono i locali, che seguendo i percorsi degli operatori turistici, standardizzati e messi a lucido al fine di dare un immagine prototipizzata al visitatore. E poi vi sono così poche macchine in giro in questa città, le strade sono sgombre da traffici tossici e il sole che tramonta dietro le nuvole aggrazia questo momento di pura esplorazione della vita giornaliera dresdina.
Mi riavvio verso la dimora che m’accoglie in Neumarkt per riposare prima della notte. Le solite annerite statue non hanno più timore di apparire immobili e innocenti, e mi fissano con occhi che sembrano saette. Mi inviano segnali dal suono gutturale, qualche pietruzza nera m’arriva vicino ai piedi, echi di risate sataniche si propagano fino al mio udito. Proseguo per la mia mostrando indifferenza e sicurezza, sento che si fanno segnali tra di loro, lassù sui tetti delle maestose cattedrali della città, escogitano un attacco, lo sento, lo so, le conosco. Sono crollate e riemerse come i bronzi di Riace, sorvegliano la città dall’alto della loro posizione privilegiata, osservano ogni passo di ogni persona, hanno il compito di individuare ogni pensiero sinistro di chi arriva. Sono unite nella loro nerezza, affiatate dal ruolo che il divino ha loro concesso, ma per quanto vogliano incutere timore sono bellissime e splendono in tutta la loro carbonizzazione.
L’Elba
Attraversata da uno dei corsi d’acqua cruciali dell’Europa centrale con i suoi 1165km, Dresda non solo è irrorata dall’Elba ma ne ha bisogno come il malato necessita della medicina. E’ assolutamente inconcepibile la ricchezza di Dresda se non ci fosse stato questo fiume, è impensabile lo sviluppo nei secoli di questa città senza l’osmosi con la sua sorgente naturalistica più importante. Poveri fiumi, oggi bistrattati a semplici corsi che trasportano acqua e ridotti a mete di sport e gente che non può permettersi di andare al mare. Tutto il commercio nella storia della Mitteleuropa si è sviluppato attraverso i suoi fiumi, prima degli aerei, dei treni e delle quattro ruote in tutte le sue forme. Navigazione fluviale per i commerci e cavalli per gli uomini, i trasporti e gli spostamenti non inquinavano e rispettavano il pianeta salvaguardandolo, permettendo a chi affrontava questi spostamenti di sviluppare le capacità rivelatrici del viaggio, attraverso l’alternanza delle fasi del giorno che si susseguivano insieme al mutamento paesaggistico.
In un’epoca in cui lo sviluppo dei trasporti ci permette di andare nel posto più lontano del mondo in ventiquattro ore, umiliando e mortificando gli sforzi fatti per millenni da esploratori che hanno salpato mari sconosciuti e dato nomi ad oceani, trovo di un ridicolo estremo la lamentela del passeggero aereo che s’infuria per due ore di ritardo. In pratica lo spazio è stato annullato e si è travasato in tempo. Non si raggiunge più Rio de Janeiro attraverso un mare infinito che onda dopo onda lentamente fa entrare in una nuova dimensione spaziale prima e identitaria poi, ma si va dall’altro lato del mondo con l’occhio all’orologio guardando un film di propaganda occidentale, e quando s’arriva a destinazione l’unico problema è come resistere al jet leg. Il turismo di oggi è industria, non più esplorazione. L’accelerazione tesa alla crescita infinita e allo sviluppo indemoniato della comunicazione e dei trasporti ha reso il mondo più piatto privandolo dell’elemento conoscitivo essenziale del viaggio, l’ignoto.
Il sabato mattina della pimpante primavera dresdina mi ispira a scendere fino alle rive dell’Elba per fare una mini crociera fluviale. Mi imbarco fiducioso. Mi ritrovo a prua seduto su un tavolino, poggio il taccuino, la penna e la piccola e versatile leica da viaggio. La sera prima ho fatto festa coi nuovi amici, sono un po’ in hangover ma l’aria del fiume e la vista di verde da entrambe le parti girassi lo sguardo mi rigenera, ordino una birra.
Intorno a me comitive di pensionati tedeschi ed un gruppo di ragazzi che mangia dei panini portati da casa, e l’Elba che comincia a farsi largo. Il flusso scorre soave mentre il motore tambura, delle nuvole disegnano il paesaggio, si sente l’odore del sabato mattina. Lo splendore della città ci lascia alle spalle, in compenso si apre un prodigioso fiume davanti che s’addentra nel cuore della natura. L’acqua è scura come la betulla più intensa, alcune case dall’aspetto prussiano cominciano a palesarsi sulle rive. Lento e piacevole scorre il fiume che aiuta a rielaborare i pensieri e mettere pace a diatribe psichiche urbane.
Il fiume è vita
e linfa di un popolo,
il fiume è l’unica strada
ispirata da Dio
Il fiume è movimento,
è trasporto di secoli,
è ricerca meditativa
è acqua rigenerante
Mantiene vivo il suo livore,
la sua forza di natura,
l’equilibrio degli habitat,
l’aria del pianeta
Le sue orme seguono
i mille verdi sulle rive che
s’alternano al cielo grigio
della mai morta Ddr
(Estemporanea poetica dell’autore)
Dopo poco più di un’ora di navigazione ecco attraccare al Castello e Parco di Pillnitz. Un’altra straordinaria testimonianza della magnificenza del barocco sassone. Costruito nel ‘700 dall’architetto Pöppelmann, lo stesso che progettò lo Zwinger, è un vero e proprio Palazzo sull’acqua con un immenso giardino inglese ed un ricco orto botanico. Sembra proprio uno di quei luoghi dove le aristocrazie si davano alle feste ed ai ricevimenti baldanzosi. Ma ciò che lo rende ancor più affascinante è il miscuglio con lo stile cinese delle sue costruzioni, in cui architettura orientale e barocca si fondono sapientemente, coi tetti a forma di pagoda e la ricerca di perfette geometrie zen per i giardini. E’ un luogo che merita sicuramente una visita, e che esprime, una volta di più, come gli uomini danarosi di un tempo erano degli esteti, che ricercavano la bellezza e l’armonia con la natura. Se solo sapessero cosa i loro successori han fatto nei secoli successi, iniettando cemento in ogni metro calpestabile della società e trasformando ogni centro urbano in una camera a gas, sterminando gli ecosistemi senza rendere altro che malattie, diseguaglianza e ghettizzazione.
La resa dei conti
Mai assuefatto dalla bellezza, persevero a gironzolare per il centro storico di una più belle, affascinanti e ricche città d’arte che abbia mai visto. Ma gli sguardi pietrificati delle statue continuano a fissarmi, la loro nerezza risplende nel cielo, la loro anima mi solletica sul collo. Basta, sono stanco di subire, alzo lo sguardo in loro direzione. Immediatamente si crea il vuoto intorno a me, le nuvole diventano più plumbee, il sole s’oscura, si sente solo la pioggia che tocca il suolo facendolo vibrare. Ne fisso una, intensamente. Il suo sguardo arcigno comincia a palpitare e si catapulta in avanti con una movenza da trapezista. La piazza inizia a roteare e rimango di fronte la statua senza batter ciglio. Il suo nero si scioglie, emergono colori e sembianze umane. Assisto immobile alla mutazione, si genera un uomo sulla cinquantina, con lunghi capelli riccioluti bianchi, una imperiosa mantella vinaccia, un foulard di seta, una camicia coi ricami d’oro e un pennello imbrattato sulla mano destra.
«chi sei?» chiede con tono imperterrito.
«sono un visitatore, che cerca l’essenza di Dresda, la sua anima letteraria e la fonte ispiratrice della sua bellezza architettonica. Tu invece chi sei, e perché mi perseguiti dal momento che sono arrivato qui?»
«Sono Bernardo Bellotto detto il “Canaletto”. Ogni statua che vedi in questa città è stata costruita per rendere immortale l’anima di noi pittori, architetti, poeti che abbiamo dato lustro a questo luogo. Quando uno di noi muore il suo spirito si eleva in pietra arenaria, e Dio ci ha assegnato il compito di vigilare su chi arriva a Dresda, sulle loro intenzioni. Dall’alto della nostra posizione seguiamo i visi nuovi, carpiamo subito le loro mire, solo con quei maledetti del febbraio del ’45 non abbiamo potuto nulla. Lì si era materializzato il diavolo e la sua potenza di fuoco è stata incontrollabile. Lì anche noi ci siamo arresi.»
«Ma perché ha seguito proprio me Sig. Canaletto? Le mie intenzioni sono pacifiche e voglio solo provare a dare a questo luogo il risalto che merita.»
«Mica monitoriamo le movenze solo di chi ha cattive intenzioni. Noi vigiliamo sulla nostra urbe, dopo un primo sguardo comprendiamo e abbiamo ancora la capacità di sentire lo spirito. Cosa che voi gente del Duemila non avete più, siete indegna materia, vile e mercificata. Le pietre hanno più anima di voi, fattelo dire da una statua.»
«Ma, non è proprio così. C’è chi in questo mondo cerca ancora di ridare linfa alla rivelazione, c’è chi prova ancora a dare un senso oltre la linea tangibile della materia. Si fidi che c’è ancora qualcuno.»
«Stupidaggini. Io vi guardo dall’alto e vedo le vostre gobbe chine su piccoli schermi illuminati a cui devolvete tutta la vostra attenzione e da cui non riuscite a staccarvi. Quelle mattonelle luminose non fanno che succhiarvi l’essenza vitale, vi riducono a servi del pensiero dei potenti. Non riuscite più ad ammirare un paesaggio, una città, una Chiesa, che subito mettete mano a quell’aggeggio. Ormai non sapete far altro che guardare ipnotizzati quella lastra di vetro luminosa, riuscite solo a guardare uno schermo, mi sembra che lo chiamate così, e non sapete più guardarvi dentro. Ciò significa che il vostro futuro è il buio più pesto, perché la luce e il colore possono nascere solamente da una profonda introspezione che rivela lo spirito. La bellezza e l’arte nascono dalle viscere dell’uomo, raggiungibili solamente con una profonda meditazione e una ricerca armoniosa del rapporto con i propri simili e la natura. E vi vedo tutti da lassù. Siete soli, immondi e annientatori della specie. Preferite la perfezione di un oggetto all’umanità della creazione. Siete il regresso della specie, non siete più in grado di inventare un colore, di creare forme a cui dar fede. Siete la fine.»
«Non tutti, non tutti Sig. Canaletto siamo così. C’è ancora chi prova a spronare i sentimenti più puri dell’uomo, chi ancora tenta di risvegliare le coscienze. Mi piacerebbe poterle presentare il filosofo Marco Guzzi, uomo del mio tempo e rivoluzionario dello spirito, che non si arrende e trasmette il suo verbo senza sosta alla ricerca della fonte della creazione divina.»
«Ahahaha, ovvio che vi sono eminenze del pensiero anche ai vostri tempi, ma sono emarginate e disprezzate da più, le ritenete un peso e chi segue il loro insegnamento viene emarginato, perché a voi interessa solo divertirvi, unica fede a cui siete devoti. State distruggendo il mondo e la coesistenza degli uomini, vi rinchiudete nella vostra solitudine, e inventate cose tipo la psicologia, scienza inutile che ha un senso solo nelle vostre società individualiste, nichiliste ed egoistiche. La vostra società della solitudine, che ritiene la famiglia un ostacolo alla propria realizzazione, che riduce la spiritualità a superstizione e il credo religioso a fiaba, il vostro fine è l’automazione e ciò vi porterà alla distruzione. Eppoi, quanto mi fate ridere con quegli aggeggi con cui vi contorcete per acchiappare un attimo e pensate che pigiare un pulsante sia arte, il vostro progresso è solo illusione.»
«Ma, Sig. Canaletto, lei si riferisce alla fotografia. È una grande scoperta dell’uomo e oggi lotta per essere considerata un’arte a tutti gli effetti. Ci sono grandi fotografi che hanno immortalato la storia e creato la nostra coscienza collettiva. Non può essere tutto sbagliato ciò a cui siamo arrivati.»
«Sono io l’inventore della fotografia, IO. E quindi posso dire che la fotografia non è arte, anche se quegli scatti sono stati fatti da Capa o altre eccellenze dell’obiettivo. Fare foto richiede meno complessità di allacciarsi le scarpe. Se questi uomini che pigiano un bottone si ritengono artisti, allora i pescatori sono degli asceti. Vadano a fare un ritratto coi pennelli, vadano a immortalare le città stando fisso per mesi a dipingere e dare le sfumature cromatiche dei materiali dei palazzi e le impercettibili movenze del cielo. L’arte è una continua ricerca della perfezione stilistica, e solo la fatica, l’insonnia e la ricerca dell’essenza possono portare al vedutismo, tutto il resto è progresso, materialismo, distruzione dell’anima, vuoto cosmico.»
Lentamente la terra intorno rallenta, si ripopola la piazza, Canaletto regredisce alla sua posizione iniziale, mantenendo fisso il suo sguardo su di me. Tutto torna a essere come prima in un attimo, le statue nerissime, il fluire continuo, i monumenti al loro posto.
«La salvezza è nello spirito, nella comunità, negli uomini e nell’arte. Diffida da chi ti vuol rendere un individuo isolato e amorfo, diffida dal successo, sta lontano da chi vuol fare carriera, sta vicino a chi ti è affine e a chi pone il cuore sempre avanti. Altrimenti ti finirà come quegli uomini che si sposano con se stessi e che idolatrate come simbolo di libertà, mentre è l’inizio dell’abisso.»
Sono le ultime parole che mi rivolge mentre torna alla sua postazione di controllo. Chissà se ci sia pure Kurt tra quelle statue. Chissà che sembianze possa avere. Chissà perché certi uomini nascono per segnarci la via.
Ringraziamenti:
Questo racconto su Dresda letteraria è stato possibile grazie a
Susann Schwickert dell’ufficio marketing turistico della Regione Sassonia e a Christoph Münch dell’ufficio marketing turistico della città di Dresda, i quali hanno creduto in questo progetto e lo hanno finanziato in toto. Un doveroso ringraziamento anche Danilo Hommel, per la guida ispirata al libro di Vonnegut e la ricostruzione meticolosa di ogni minuto del bombardamento della città del ’45, e al musicista Ansa Saurmann a cui auguro il meglio per il proseguo della sua carriera artistica. Ringrazio anche tutto lo staff dell’hotel Vienna House QF Dresden per la splendida ospitalità concessami. Un pensiero anche ai miei amici Giulia e Antonio, che vivono in Germania e mi hanno spinto a provarci, senza il loro stimolo non avrei mai fatto questa esperienza.
Dresda, Aprile 2019.